Pubblicato il 17-01-2019
E se l'associazionismo, a volte, fosse un freno per la cultura?
Chiederlo in un paese come il nostro suona quasi come un'eresia: le associazioni, in particolar modo quelle non riconosciute, sono l'ossatura civica dell'Italia. È attorno all'associazionismo che si organizza la vita culturale diffusa sui territori, dagli eventi musicali a quelli teatrali passando per i gruppi di appassionati di arte e letteratura. In moltissimi casi, le associazioni svolgono un lavoro di alfabetizzazione culturale di base che le istituzioni non riescono a portare avanti. Come può, questo, essere considerato un ostacolo?
Se consideriamo la sfera della cultura nella sua accezione più ampia, è facile osservare come alla straordinaria quantità di associazioni che si occupano di produzione e distribuzione di beni e servizi legati in vario modo alla sfera culturale non corrisponda uno sviluppo proporzionale di ecosistemi di economia culturale in grado di sostenersi autonomamente. “In tempi di tagli drammatici ai finanziamenti” si dirà “è già tanto se chi si dà la pena di associarsi per “fare cultura” riesce a portare avanti i compiti minimi che si prefigge”. Ma è proprio attorno a quella parola, “minimi”, che si gioca tutto.
L'Italia ha sfornato negli ultimi decenni centinaia di migliaia di laureati che hanno sempre meno possibilità di inserirsi in modo sensato nel mercato del lavoro. Il passaggio all'economia post-industriale si è risolto nel peggiore dei modi, con la sovrapproduzione di personale altamente qualificato in una recessione di cui non si riesce a vedere la fine. Chiamiamola, se si vuole, decrescita forzata. In un contesto di questo tipo, l'associazione è la prima e più intuitiva risposta di chi cerca di crearsi un impiego quando diventa chiaro che non c'è nessuna finestra di possibilità nell'economia tradizionale. Sono storie coraggiose, di chi butta il cuore oltre l'ostacolo.
Eppure dal mondo delle associazioni arrivano dei segnali precisi. In molti casi, alla mole di lavoro ordinario (flessibile, precario, instabile, che serve per pagare l'affitto) si va a sommare il lavoro straordinario (anch'esso flessibile, precario, instabile, che però è quello che si sogna di fare nella vita, “quello per cui si è studiato”). Il risultato è sempre più spesso un percorso di autosfruttamento nel quale si profondono energie per riuscire a ottenere i risultati minimi senza avere mai il tempo e le risorse per organizzare processi più strutturati, per investire e per progettare. Si vorrebbero mappare i bandi e scrivere progetti da presentare, ma non c'è mai tempo. E soprattutto non c'è mai tempo per ragionare sui passi ulteriori da fare, per capire come crescere.
Quando ha senso per un'associazione fare il salto verso una struttura cooperativa? O verso forme di impresa, sociale o meno? Quali vantaggi presentano questi passaggi per chi ci lavora, per i destinatari e per il territorio in cui si opera? Per rispondere a queste domande c'è bisogno di un percorso che sappia coniugare le legittime necessità dell'associazionismo in un'ottica di governance della cultura più ampia, che ci si prenda la responsabilità di capire e spiegare come e quando è possibile e conveniente trasformarsi in qualcosa d'altro. Perché, soprattutto in questi tempi, non ci si può accontentare di andare sempre al minimo.
Questo articolo è stato scritto il 18 settembre 2013 e lo abbiamo riportato dal sito di Doppiozero, che a sua volta lo ha ripreso riprende dal numero della rivista cartacea Vita dedicato all'analisi e al dibattito sul censimento ISTAT del non-profit, uscito il 2 agosto 2013.
(La foto è di Alec Cani)
CHI L'HA SCRITTO?
Bertram Niessen, ricercatore e artista elettronico, collabora con Doppiozero, il Center for Digital Ethnography la Foundation for P2P Alternatives,
e scrive per Digicult e varie altre riviste, blog e quotidiani quando capita.
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