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E intanto, mentre non c'eri...

Maria Agostina


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Michela L.


Huckelberry Finn
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Huckelberry Finn
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Arturo Robertazzi

Zagreb

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Aggiornato il 21-01-2019 da LaCasula
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KaraLettura

“Quel mattino era un bel mattino. Facemmo fuori quattro persone.” Il romanzo di Arturo Robertazzi (che dal 25 al 31 ottobre è in Sardegna "a piede Lìberos") inizia con forza, senza tentennamenti o infingimenti, non lasciando dubbi sulla crudezza dell’argomento: la guerra. Nella Base, una fabbrica di auto italiane in rovina trasformata in un lager, sono appostati: Alek, detto il Cane, la Guardia, trent’anni, metà del volto devastata, Igor, l’autista dalla dentatura precaria, il protagonista e il Comandante. Con della legna hanno costruito un palcoscenico, per rendere spettacolari le esecuzioni. “Era lì che loro morivano. […] Le esecuzioni scivolavano via senza intoppi. Noiose: puntare, mirare, sparare. Divertenti: puntare, mirare, sparare. In fondo sempre uguali: puntare, mirare, sparare.” Arturo Robertazzi ci prende per mano all’inizio del suo romanzo e non ci permette più di fuggire, nemmeno di fronte al puzzo di escrementi e “frattaglie” delle celle, al corpo senza vita di una donna brutalmente violata e poi gettata in una fossa comune, ai poveri resti maciullati dalle mine di due ragazzini, all’innocenza perduta di un bambino che avrebbe voluto essere solo quello, un bambino, appunto. Ci tiene avvinti con la sua scrittura a tratti concitata, fatta di frasi brevi, spezzate, dalla punteggiatura incalzante, a tratti più lenta, descrittiva, poetica, ben lungi dall’essere soltanto una scelta stilistica e, pertanto, funzionale alla narrazione della storia. L’intento, riuscito, è quello di trascinarci nell’incubo e nell’insensatezza di una guerra tra amici divenuti nemici, tra un “noi” e un “loro” che fino a pochi attimi prima non esisteva, e di farlo attraverso gli occhi di un ragazzo che non ha scelto da che parte stare, perché “se ci fossero stati loro al nostro posto, non avrebbero forse fatto lo stesso?”. Qualcun altro ha deciso per lui imponendogli la via da seguire, nell’assurda speranza che la vendetta, il dolore inflitto a “loro”, placassero la sofferenza. In quei sette allucinanti giorni di barbarie trascorsi nella Base, però, il passato lo viene a cercare, a stanare, per permettergli di ritrovare un barlume di umanità e una qualche possibilità di salvezza, di un domani, sebbene nella sua mente risuonino ancora le parole, premonitrici, del suo amico Dražen che, in un giorno non lontano pieno di blu, turchesi, bianchi, gli aveva confessato, gli occhi velati da un’improvvisa tristezza: “Domani, domani, domani! […] A volte ho paura che quel domani non arriverà mai! A volte ho paura che non ci sarà nessun domani”. (continua su http://liberos.it/notizie/libere-intepretazioni-zagreb/283)

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Carlo

“Quel mattino era un bel mattino. Facemmo fuori quattro persone.” Il romanzo di Arturo Robertazzi (che dal 25 al 31 ottobre è in Sardegna "a piede Lìberos") inizia con forza, senza tentennamenti o infingimenti, non lasciando dubbi sulla crudezza dell’argomento: la guerra. Nella Base, una fabbrica di auto italiane in rovina trasformata in un lager, sono appostati: Alek, detto il Cane, la Guardia, trent’anni, metà del volto devastata, Igor, l’autista dalla dentatura precaria, il protagonista e il Comandante. Con della legna hanno costruito un palcoscenico, per rendere spettacolari le esecuzioni. “Era lì che loro morivano. […] Le esecuzioni scivolavano via senza intoppi. Noiose: puntare, mirare, sparare. Divertenti: puntare, mirare, sparare. In fondo sempre uguali: puntare, mirare, sparare.” Arturo Robertazzi ci prende per mano all’inizio del suo romanzo e non ci permette più di fuggire, nemmeno di fronte al puzzo di escrementi e “frattaglie” delle celle, al corpo senza vita di una donna brutalmente violata e poi gettata in una fossa comune, ai poveri resti maciullati dalle mine di due ragazzini, all’innocenza perduta di un bambino che avrebbe voluto essere solo quello, un bambino, appunto. Ci tiene avvinti con la sua scrittura a tratti concitata, fatta di frasi brevi, spezzate, dalla punteggiatura incalzante, a tratti più lenta, descrittiva, poetica, ben lungi dall’essere soltanto una scelta stilistica e, pertanto, funzionale alla narrazione della storia. L’intento, riuscito, è quello di trascinarci nell’incubo e nell’insensatezza di una guerra tra amici divenuti nemici, tra un “noi” e un “loro” che fino a pochi attimi prima non esisteva, e di farlo attraverso gli occhi di un ragazzo che non ha scelto da che parte stare, perché “se ci fossero stati loro al nostro posto, non avrebbero forse fatto lo stesso?”. Qualcun altro ha deciso per lui imponendogli la via da seguire, nell’assurda speranza che la vendetta, il dolore inflitto a “loro”, placassero la sofferenza. In quei sette allucinanti giorni di barbarie trascorsi nella Base, però, il passato lo viene a cercare, a stanare, per permettergli di ritrovare un barlume di umanità e una qualche possibilità di salvezza, di un domani, sebbene nella sua mente risuonino ancora le parole, premonitrici, del suo amico Dražen che, in un giorno non lontano pieno di blu, turchesi, bianchi, gli aveva confessato, gli occhi velati da un’improvvisa tristezza: “Domani, domani, domani! […] A volte ho paura che quel domani non arriverà mai! A volte ho paura che non ci sarà nessun domani”. (continua su http://liberos.it/notizie/libere-intepretazioni-zagreb/283)

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Editore: Aìsara

Lingua: (DATO NON PRESENTE)

Numero di pagine: 128

Formato: (DATO NON PRESENTE)

ISBN-10: 8861040748

ISBN-13: 9788861040748

Data di pubblicazione: 2012

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