I piccoli riti familiari, gli episodi minimi che scandiscono la vita di tutti i giorni, i gesti affettuosi e i rabbuffi, le manie, le passioni, le paure: il tutto depositato in una serie di parole "speciali", in un gergo domestico che è pegno d'amore e di apprtenenza; e che, rivisitato a distanza di molti anni, non smette di evocare atmosfere incantate e benevoli fantasmi, pur nel turbine di una Storia spietata (il fascismo, il confino, la guerra…) che la famiglia si trova a fronteggiare.
Il capolavoro di Natalia Ginzburg, datato 1963, non è un romanzo d'invenzione: esso nasce, al contrario, da un assoluto scrupolo di verità (nessun nome fittizio, nessun fatto che non sia realmente accaduto, nessun personaggio che non sia una persona, in carne e ossa), da un esercizio della memoria tanto più caldo e vibrante quanto più alto è lo sforzo compiuto perché il resoconto sia fedele e attendibile.
I caratteri dei familiari della scrittrice, e l'aura particolarissima che promana dal "respiro" inconfondibile di una casa, risaltano così a tutto tondo (indimenticabile la figura del padre, coi suoi "sbrodeghezzi" e le sue "negrigure": un lessico, appunto, di famiglia) sullo sfondo della Torino intellettuale e antifascista che negli anni Trenta cercava di resistere come poteva alla barbarie montante. E si esaltano nei tratti di una scrittura nitida e limpidissima, che all'apparente nonchalance del registro "diaristico" sa unire il pedale di una raffinata ironia e di una naturale, quasi irriflessa, felicità di espressione.