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E intanto, mentre non c'eri...

Michela L.


Huckelberry Finn
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I nomi epiceni
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"Non gli passa. È difficile che la collera passi. Esiste il verbo incollerirsi, far montare dentro di sé la collera, ma non il suo contrario. P [...]

Michela L.


Huckelberry Finn
Oltre un mese fa, 05-04-2024
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"pensavo, come ha potuto «un sonnolento paese di poeti e sognatori», e la più colta e raffinata nazione che il mondo avesse mai visto, come ha [...]

Michela L.


Huckelberry Finn
Oltre un mese fa, 05-02-2024
Il libro delle sorelle
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"Tu che adori la letteratura non hai voglia di scrivere? - Adoro anche il vino, ma non per questo ho voglia di coltivare la vigna."

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François Mauriac

La farisea

Voto medio della comunità Lìberos
Recensioni (1)
Inserito il 22-03-2013 da Noce Moscata
Aggiornato il 04-08-2022 da KaraLettura
Disponibile in 2 librerie
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Noce Moscata

 

Dietro un’apparente cattiveria può nascondersi, a volte, una persona davvero malvagia.
 
 
Così diceva Giovanni Soriano in Maldetti. Pensieri in soluzione acida. E non aveva tutti i torti.
 
Ci sono un sacco di cose che mi rendono nervosa e irascibile, ma poche mi fanno veramente imbestialire. Oltre ai soprusi su chi non si può difendere, oltre all’accanimento della malasorte su chi ha già le reni spezzate dalle proprie sciagure personali, oltre alla violenza gratuita, una cosa che mi fa infuriare è l’invidia cattiva dei sentimenti.
 
Quindi non l’invidia di cose, che quella la conosco bene anch’io. Alle elementari mi sarei ammazzata per avere il righello cangiante della compagna di banco, da adolescente avrei pagato per passare un fine settimana senza genitori, adesso potrei regalare un mignolo del piede (di quello sinistro, dove l’unghietta è meno carina di quella del piede destro), per avere una Nikon D3, insomma state parlando con una professionista dell’invidia di cose. 
 
 
Però poi c’è  anche una categoria intermedia, quella dell’invidia di attività, e anche in quello sono un’espertona, non mi faccio mancare niente. Per dirne una, tipo quella che mi fa rodere il fegato quando vedo gente che col mio stesso percorso di studi ed esperienze, è già arrivata. In questo caso mi spingo a labirintici sogni di realtà parallele, dove gli invidiati vengono sbugiardati davanti a un pubblico dove io campeggio in prima fila, dove scivolano su bucce di banane mentre tengono conferenze importanti – è notoria la presenza di bucce di banane alle conferenze- , ecco insomma, la fantasia malevola la faccio galoppare anche io, ma mai mi spingo ad esempio ad augurare loro la morte. Anche quando si passa a scenari ben più raccapriccianti, come le notizie serie del Tg, i pedofili che distruggono la vita di bambini innocenti, gli attentati terroristici, gli omicidi ingiustificati eccetera, ecco, anche in quel caso, la prima cosa che mi viene in mente è una lurida gattabuia di cui non si trova più la chiave, e  se nei casi peggiori, arrivo a immaginarmi la morte dei carnefici, non mi soffermo mai sulla modalità, ma su un vago: “persone del genere dovrebbero sparire dalla faccia della terra”, ma detto quasi come un Padrenostro alla comunione dei figli degli amici, detto a memoria, il significante senza il significato. 
 
 
E poi c’è l’invidia cattiva dei sentimenti, che è proprio un’altra cosa. È vedere l’esternazione della beatitudine altrui, invidiarla,  e quindi adoperarsi per distruggerla. E non fermarsi davanti all’abbattimento dell’esternazione, ma procedere oltre e distruggere la causa di quella serenità felice. Questa cosa mi atterrisce e allo stesso tempo mi manda in bestia. Primo perché non arrivo proprio a concepire l’invidia CONCRETA di una cosa astratta come può essere la felicità, la serenità, la gioia. Insomma, è una cosa che fallisce per inesistenza dei presupposti. Perché non è mica detto che ciò che rende un individuo felice, sereno e gioioso, su di noi sortisca lo stesso effetto. Quindi ok, si può sospirare e dire “Ah, beato lui, ah, che vita misera la mia, ah, la nequizia dei tempi!!!”. Però poi basta, ci si ferma lì. Passare allo stadio successivo ed escogitare macchinosi piani per distruggere quell’individuo, ha il sapore dell’insanità mentale.  Non parliamo poi del dispendio di energie per elaborare un piano di cui non si possa dire successivamente che siete voi i responsabili. Eppure di gente del genere ce n’è. E non così poca come ci si augurerebbe. 
 
 
La Farisea di Mauriac non solo è  una di quelle persone, ma è molto peggio, perché giustifica la propria cattiveria spacciandola per la messa in pratica di ideali elevati e religiosi, e nasconde il proprio egoismo dietro una falsa devozione che irriterebbe anche il più buon cristiano. Un misto tra la cattiveria cristallina della matrigna di Biancaneve, e la sensibilità castrata dell’ispettore Javert dei Miserabili. 
 
E quindi, cara la mia Brigida Pian, a me la tua redenzione finale non mi scompiffera proprio un bel niente. È vero che è accompagnata dall’espiazione, ma hai tirato troppo la corda. E secondo me neanche Mauriac ti ha perdonata del tutto. Il tuo peccato di presunzione sfocia in un ammissione di colpa solo alle ultime pagine, troppo tardiva per farmi credere che l’autore prenda le tue difese, e troppo esigua per esigere dal lettore un perdono pieno. In compenso Mauriac è l’amico che vorremmo avere: un autore umanissimo, cupo nella descrizione del dolore, ma delicatissimo nell’aprire piaghe e ferite che potrebbero essere di tutti. Non è un libro che colpisce per perfezione, ma per spontaneità. Per quanto ne so io, potrebbe essere persino autobiografico, di certo è una cosa “sentita”. E quindi capace di dare e lasciare qualcosa a chiunque lo legga.
 

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Editore: San Paolo

Lingua: (DATO NON PRESENTE)

Numero di pagine: 198

Formato: (DATO NON PRESENTE)

Data di pubblicazione: 1997

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Dietro un’apparente cattiveria può nascondersi, a volte, una persona davvero malvagia.
 
 
Così diceva Giovanni Soriano in Maldetti. Pensieri in soluzione acida. E non aveva tutti i torti.
 
Ci sono un sacco di cose che mi rendono nervosa e irascibile, ma poche mi fanno veramente imbestialire. Oltre ai soprusi su chi non si può difendere, oltre all’accanimento della malasorte su chi ha già le reni spezzate dalle proprie sciagure personali, oltre alla violenza gratuita, una cosa che mi fa infuriare è l’invidia cattiva dei sentimenti.
 
Quindi non l’invidia di cose, che quella la conosco bene anch’io. Alle elementari mi sarei ammazzata per avere il righello cangiante della compagna di banco, da adolescente avrei pagato per passare un fine settimana senza genitori, adesso potrei regalare un mignolo del piede (di quello sinistro, dove l’unghietta è meno carina di quella del piede destro), per avere una Nikon D3, insomma state parlando con una professionista dell’invidia di cose. 
 
 
Però poi c’è  anche una categoria intermedia, quella dell’invidia di attività, e anche in quello sono un’espertona, non mi faccio mancare niente. Per dirne una, tipo quella che mi fa rodere il fegato quando vedo gente che col mio stesso percorso di studi ed esperienze, è già arrivata. In questo caso mi spingo a labirintici sogni di realtà parallele, dove gli invidiati vengono sbugiardati davanti a un pubblico dove io campeggio in prima fila, dove scivolano su bucce di banane mentre tengono conferenze importanti – è notoria la presenza di bucce di banane alle conferenze- , ecco insomma, la fantasia malevola la faccio galoppare anche io, ma mai mi spingo ad esempio ad augurare loro la morte. Anche quando si passa a scenari ben più raccapriccianti, come le notizie serie del Tg, i pedofili che distruggono la vita di bambini innocenti, gli attentati terroristici, gli omicidi ingiustificati eccetera, ecco, anche in quel caso, la prima cosa che mi viene in mente è una lurida gattabuia di cui non si trova più la chiave, e  se nei casi peggiori, arrivo a immaginarmi la morte dei carnefici, non mi soffermo mai sulla modalità, ma su un vago: “persone del genere dovrebbero sparire dalla faccia della terra”, ma detto quasi come un Padrenostro alla comunione dei figli degli amici, detto a memoria, il significante senza il significato. 
 
 
E poi c’è l’invidia cattiva dei sentimenti, che è proprio un’altra cosa. È vedere l’esternazione della beatitudine altrui, invidiarla,  e quindi adoperarsi per distruggerla. E non fermarsi davanti all’abbattimento dell’esternazione, ma procedere oltre e distruggere la causa di quella serenità felice. Questa cosa mi atterrisce e allo stesso tempo mi manda in bestia. Primo perché non arrivo proprio a concepire l’invidia CONCRETA di una cosa astratta come può essere la felicità, la serenità, la gioia. Insomma, è una cosa che fallisce per inesistenza dei presupposti. Perché non è mica detto che ciò che rende un individuo felice, sereno e gioioso, su di noi sortisca lo stesso effetto. Quindi ok, si può sospirare e dire “Ah, beato lui, ah, che vita misera la mia, ah, la nequizia dei tempi!!!”. Però poi basta, ci si ferma lì. Passare allo stadio successivo ed escogitare macchinosi piani per distruggere quell’individuo, ha il sapore dell’insanità mentale.  Non parliamo poi del dispendio di energie per elaborare un piano di cui non si possa dire successivamente che siete voi i responsabili. Eppure di gente del genere ce n’è. E non così poca come ci si augurerebbe. 
 
 
La Farisea di Mauriac non solo è  una di quelle persone, ma è molto peggio, perché giustifica la propria cattiveria spacciandola per la messa in pratica di ideali elevati e religiosi, e nasconde il proprio egoismo dietro una falsa devozione che irriterebbe anche il più buon cristiano. Un misto tra la cattiveria cristallina della matrigna di Biancaneve, e la sensibilità castrata dell’ispettore Javert dei Miserabili. 
 
E quindi, cara la mia Brigida Pian, a me la tua redenzione finale non mi scompiffera proprio un bel niente. È vero che è accompagnata dall’espiazione, ma hai tirato troppo la corda. E secondo me neanche Mauriac ti ha perdonata del tutto. Il tuo peccato di presunzione sfocia in un ammissione di colpa solo alle ultime pagine, troppo tardiva per farmi credere che l’autore prenda le tue difese, e troppo esigua per esigere dal lettore un perdono pieno. In compenso Mauriac è l’amico che vorremmo avere: un autore umanissimo, cupo nella descrizione del dolore, ma delicatissimo nell’aprire piaghe e ferite che potrebbero essere di tutti. Non è un libro che colpisce per perfezione, ma per spontaneità. Per quanto ne so io, potrebbe essere persino autobiografico, di certo è una cosa “sentita”. E quindi capace di dare e lasciare qualcosa a chiunque lo legga.
 

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