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E intanto, mentre non c'eri...

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Tommaso Giagni

L'estraneo

Voto medio della comunità Lìberos
Recensioni (1)
Inserito il 30-01-2014 da Alberto Rossi
Aggiornato il 30-01-2014 da Alberto Rossi
Disponibile in 1 libreria
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Alberto Rossi

Questo piccolo romanzo d'esordio di Tommaso Giagni è perfettamente riassunto nella copertina. Un ragazzo a mezza altezza dall'invisibile volto incappucciato e di cui non si capisce se stia cadendo da chissà quale folle altezza o se venga spazzato via da un vento dalla forza incontenibile. Quello che si coglie perfettamente è però il suo vano tentativo di aggrapparsi a qualcosa, di cercare un appiglio che possa evitare il suo destino già scritto: il disastro. La trama, detto per inciso, non appare delle più originali: il protagonista è in fondo un moderno Agostino della Roma bene che, come il ragazzino di Moravia, scopre maldestramente che esiste un altro mondo al di fuori della sua orbita. Il mondo delle periferie e del disagio, del consumo sfrenato di chi non ha un soldo e dei tentativi frustrati di farsi una vita che vada oltre la tremenda condizione di un proletariato che ci avevano detto non esistere più e che invece è ancora vivo e, come al solito, sta malissimo. Ma l'estraneo (questo il solo nome che si dà il protagonista nell'epigrafe) è già adulto, e per questo ben lontano dall'ingenuità comprensibilmente idiota di Agostino. Il suo viaggio non è quindi di formazione, ma è tutt'altra scoperta, è la scoperta che il mondo che si credeva di conoscere, diviso tra un centro a cui tutti ambiscono e una miriade di periferie da cui tutti vogliono fuggire è in realtà mera illusione. Il centro non è altro che un'altra periferia, solo tirata a lucido e per questo ipocrita nella sua natura. Il centro è finto e tradisce. Il centro è perfino più triste. Già, la periferia: un mondo fatto di impossibilità, di parole smozzicate, di sfide insensate, di droga e microdelinquenza, di prostituzione maschile ("te nu' lo sai, come te raspa 'a lingua sur sottocoscia de' na vecchia"), di allucinanti pire vestiarie come riti d'iniziazione, di ignobili fascismi pecorecci e di fughe dalla società patrilineare. Ma un mondo che racchiude dentro di sé una tenerezza seducente: "Arrivo alla porta, quasi posso sentire che profumo s'è messa. Se ne sta cenerentola davanti all'ascensore, fa oscillare la borsetta. Con gli occhi spauriti interroga Andrea per ricevere il suo giudizio: non posso vedere l'espressione di lui, ma la ragazza ha una reazione che sembra un fiorire: solleva il viso, perde quel ripiegarsi sul suo stesso corpo. - Sei una donna, teso' -. Andrea le va vicino, cingendole la vita le prende la mano e le fa fare una piroetta - qua, all'ottavo piano della palazzina G - che è una poesia anche se è scritta con le croste d'intonaco." E infine la scrittura. Lo stile di Giagni è tagliente, sì, perché senza voler fare il Gadda il giovane scrittore riesce comunque a trasmettere la sua romanità e quella di un romanzo che poteva essere di qualsiasi metropoli, tutte d'altronde così uguali nell'essere terribili e castranti, ma che grazie alla sua abilità narrativa è invece di una sola terribile metropoli: Roma. Roma resa ancora più terribile dal ritmo trascinante delle frasi, che raramente superano le dodici parole e che si susseguono secche senza sosta. TA-TA-TA-TA-TA-TA. Non fai in tempo a leggerne una che già quella successiva ti ha bucato il cervello. Un cazzo di mitra.

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Editore: Giulio Einaudi Editore

Lingua: (DATO NON PRESENTE)

Numero di pagine:

Formato: (DATO NON PRESENTE)

ISBN-13: 9788858405932

Data di pubblicazione: 2012

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Questo piccolo romanzo d'esordio di Tommaso Giagni è perfettamente riassunto nella copertina. Un ragazzo a mezza altezza dall'invisibile volto incappucciato e di cui non si capisce se stia cadendo da chissà quale folle altezza o se venga spazzato via da un vento dalla forza incontenibile. Quello che si coglie perfettamente è però il suo vano tentativo di aggrapparsi a qualcosa, di cercare un appiglio che possa evitare il suo destino già scritto: il disastro. La trama, detto per inciso, non appare delle più originali: il protagonista è in fondo un moderno Agostino della Roma bene che, come il ragazzino di Moravia, scopre maldestramente che esiste un altro mondo al di fuori della sua orbita. Il mondo delle periferie e del disagio, del consumo sfrenato di chi non ha un soldo e dei tentativi frustrati di farsi una vita che vada oltre la tremenda condizione di un proletariato che ci avevano detto non esistere più e che invece è ancora vivo e, come al solito, sta malissimo. Ma l'estraneo (questo il solo nome che si dà il protagonista nell'epigrafe) è già adulto, e per questo ben lontano dall'ingenuità comprensibilmente idiota di Agostino. Il suo viaggio non è quindi di formazione, ma è tutt'altra scoperta, è la scoperta che il mondo che si credeva di conoscere, diviso tra un centro a cui tutti ambiscono e una miriade di periferie da cui tutti vogliono fuggire è in realtà mera illusione. Il centro non è altro che un'altra periferia, solo tirata a lucido e per questo ipocrita nella sua natura. Il centro è finto e tradisce. Il centro è perfino più triste. Già, la periferia: un mondo fatto di impossibilità, di parole smozzicate, di sfide insensate, di droga e microdelinquenza, di prostituzione maschile ("te nu' lo sai, come te raspa 'a lingua sur sottocoscia de' na vecchia"), di allucinanti pire vestiarie come riti d'iniziazione, di ignobili fascismi pecorecci e di fughe dalla società patrilineare. Ma un mondo che racchiude dentro di sé una tenerezza seducente: "Arrivo alla porta, quasi posso sentire che profumo s'è messa. Se ne sta cenerentola davanti all'ascensore, fa oscillare la borsetta. Con gli occhi spauriti interroga Andrea per ricevere il suo giudizio: non posso vedere l'espressione di lui, ma la ragazza ha una reazione che sembra un fiorire: solleva il viso, perde quel ripiegarsi sul suo stesso corpo. - Sei una donna, teso' -. Andrea le va vicino, cingendole la vita le prende la mano e le fa fare una piroetta - qua, all'ottavo piano della palazzina G - che è una poesia anche se è scritta con le croste d'intonaco." E infine la scrittura. Lo stile di Giagni è tagliente, sì, perché senza voler fare il Gadda il giovane scrittore riesce comunque a trasmettere la sua romanità e quella di un romanzo che poteva essere di qualsiasi metropoli, tutte d'altronde così uguali nell'essere terribili e castranti, ma che grazie alla sua abilità narrativa è invece di una sola terribile metropoli: Roma. Roma resa ancora più terribile dal ritmo trascinante delle frasi, che raramente superano le dodici parole e che si susseguono secche senza sosta. TA-TA-TA-TA-TA-TA. Non fai in tempo a leggerne una che già quella successiva ti ha bucato il cervello. Un cazzo di mitra.

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