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Jorge Zalamea

El gran Burundún-Burundá ha muerto

Voto medio della comunità Lìberos
Recensioni (1)
Inserito il 30-01-2014 da Alberto Rossi
Aggiornato il 30-01-2014 da Alberto Rossi
Disponibile in 1 libreria
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Alberto Rossi

Siccome sto in qualche modo lavorandoci su questo misconosciuto libriccino del Zalamea, quella che segue è più che altro una raccolta delle note che ho preso leggendo questo meraviglioso romanzo breve, anticipata da una breve sinossi: la voce narrante è quella di una cronaca che deve entrare negli annali di questa nazione, evidentemente ispano-americana ma di cui non si riferisce il nome. L'azione prende luogo tutta nel corteo funebre del compianto dittatore, il Burundún-Burundá del titolo. Ovviamente il corteo è chilometrico, con in testa le varie autorità (politiche, religiose, militari) e via via il popolo. Tutti, dal primo all'ultimo, sono terribilmente dispiaciuti della morte del loro capo perché, e qui viene il punto di genio, la più grande riforma del Burundún fu quella di togliere la parola al suo popolo. Non la libertà di parola, ma la parola in toto. E senza parola addio pensiero, e senza pensiero addio sovversione. Con quella sua mossa Burundún ha preparato un'intera nazione di teste non-pensanti che seguivano il capo. E basta. Nel finale però, un gran cancelliere va ad aprire la bara, e al suo interno non v'è più il corpo del dittatore, bensì un pappagallo fatto con i fogli di giornale; nel corteo, che vedeva praticamente tutti i cittadini del paese in uno scodazzo chilometrico, scoppia il panico. Tutto qui, non succede nient'altro, ma l'immagine finale è bellissima: nel mezzo delle grida di dolore e di disperazione della gente in preda al panico, l'unico elemento sovversivo è il cavallo che apriva la parata, che se ne sbatte delle convenzioni umane e ride, ride e ancora ride mentre tutti gli altri piangono. Qui di seguiti i miei appuntini: L'incipit dell'opera parla solo di problemi inerenti il potere, la parola e lo spazio, assumendo da subito una dimensione allegorica. È esemplare, nel testo, l'ecatombe degli uccelli: questa dimostra la mancanza di umanità e l'incapacità assoluta di comunicare coi suoi sudditi del dittatore. Questo progetto, nato per dimostrarsi benefattore del popolo, divenne una pioggia di cadaveri; la morte ed il potere coprono completamente la città, insinuandosi nella vita privata degli uomini. Il mondo è immobile e umiliato. L'invasione degli spazi privati è portata avanti con costanza dal dittatore, come si vede alle pagg. 25-26, dove le stesse parole continuano a ripetersi ovunque; sono le parole suicide volte ad eliminare il linguaggio stesso. In questa parte il ritmo, la sintassi, l'anafora e le altre figure retoriche sono incredibilmente poetiche e descrivono con precisione il potere del dittatore, che arriva ovunque pur non entrando mai in scena. Questa prepotenza arriva fino alla mente dei sudditi; il dittatore sembra avere il dono dell'ubiquità, ché non c'è luogo che non venga raggiunto dal suo potere. Vivo o morto Burundún si trova sempre in luoghi chiusi ed inaccessibili (il palazzo, la bara, la piazzetta del cimitero). Questi spazi sono l'emblema di un potere che non ha mai relazioni col popolo. La netta distanza tra Burundún ed i suoi sudditi però non gli impedisce il dominio assoluto; rinchiudendosi afferma la sua immagine di dio onnipresente ma invisibile. Questa è manifestazione dell'aspetto disciplinario del suo potere, e difatti il potere di Burundún si sviluppa, a livello sociale e spaziale, come una sorta di panopticon. Al controllo nulla sfugge. L'effetto è l'assoluta disciplina dei sudditi. La forza del controllo però trova il suo massimo splendore nel suo carattere subdolo poiché il suo effetto risulta nella finzione del controllo, nel far credere ai sudditi che essi siano costantemente controllati. Il controllo elimina qualunque tipo di organizzazione orizzontale; la struttura della società è solo verticale, perfettamente gerarchica. Le relazioni umane sono quindi fittizie. Da qui si produce una forma di alienazione, e le uniche relazioni possibili son quelle familiari, che sono però simbolo di una triste stagnazione (a pag. 14 la descrizione di un nucleo familiare tipo in cui nessuno ha possibilità di redenzione). Zalamea, attraverso la voce narrante, enfatizza la condizione di immobilità e di abbandono dei sudditi. Nonostante tutto ciò, lo spettacolo è grande. Il funerale è infatti un altro punto dove il potere mostra la sua forza e dove ripete se stesso all'infinito. I tre elementi simbolici sono la basilica, la strada ed il palazzo. L'ufficialità del potere invade la strada (nucleo della città). Ma l'autore qui suggerisce soltanto il tempo e lo spazio e non mostra mai la piazza pubblica, luogo di confronto dialettico per eccellenza (mentre la strada è luogo di passaggio e di dimostrazione del potere). La basilica è un referente spaziale, ma non definisce un luogo concreto. L'autore rarefà l'atmosfera, premendo così sul carattere mitico e simbolico della narrazione. Il potere è quindi anche religioso, servendo l'autorità clericale come fonte di legittimazione del potere politico (l'autorità clericale rimane comunque sempre subordinata a quella politica). La basilica ha valenza simbolica perché è il referente spaziale dove il dittatore mette in scena il suo spettacolo. L'aggettivazione nel testo è carica e barocca, sempre volta all'esagerazione (vedi la fine di p. 19, dove ogni elemento è caratterizzato da un colore, rendendo la descrizione estremamente visiva). Subito dopo, a p. 20, vengono usati 36 forme verbali che identificano 36 diversi animali, anche questo a dimostrare l'estrema capacità retorica di Zalamea. L'esasperazione della retorica è affascinante soprattutto perché zoomorfismo e antropomorfismo hanno una relazione dialogica; questo è uno stratagemma tipico della cultura popolare medievale, che descrive il potere sotto forma animalesca. Anche la strada e la basilica hanno una valenza simbolica che viene dalla tradizione, quella che pretende che i sudditi capiscano facilmente la dimensione gargantuesca del potere grazie ad opere architettoniche mastodontiche; d'altronde Zalamea ha visto e vissuto diversi regimi, e con questa descrizione vuole riassumerli tutti. Il valore simbolico è intensificato, rendendo i diversi luoghi del potere dei personaggi la cui funzione è quella di consegnare il potere al dittatore. In realtà nel testo il regime non è accettato con una collaborazione attiva del popolo, bensì con un'attitudine passiva; la gente accetta il potere perché ha perso qualsiasi dignità individuale (vedi pp. 35-36). Tutte le identità finiscono per riconoscersi nel Partito. Nelle mani di Burundún la retorica diventa vuota: non gli interessa mostrarsi sempre in primo piano, ma portare avanti un regime che inaugura una nuova era, un nuovo ordine politico e sociale che continua all'infinito (come il corteo funebre). Nel tempo della narrazione Burundún è già morto, viene solamente evocato, proprio come perpetua presenza. Il mondo è statico proprio come voleva Burundún, e la staticità è dimostrata dal rigido ordine del corteo. Il corteo legittima un ordine basato sull'esercizio della violenza (l'esercito, seguito dalla polizia e poi dalla chiesa). Con la polizia e la chiesa vengono rappresentati l'orrore e l'inganno, essi sono altri strumenti per sottomettere il popolo e per informare il dittatore (identificano i comportamenti parzialmente pericolosi). Nella seconda parte l'autore riprende la descrizione del corteo, con i numerosi gruppi che stanno dietro al carro funebre. Questi gruppi rappresentano il presente, sono i sudditi che permettono l'infinito perpetuarsi del regime. I frutti autentici della dittatura, però, sono quei sudditi che appaiono per ultimi (p. 36), anch'essi, nella loro povertà, complici del potere assoluto. Il corteo è quindi la perfetta allegoria delle gerarchie sociali, di chi comanda e chi è suddito. Questa rappresentazione del potere afferma che non c'è spazio per nessuno che viva al di fuori dell'ordine. Per arrivare al cimitero ci si allontana dalla città (centro del potere), ma all'interno del cimitero lo spazio dedicato a Burundún è comunque quello centrale. La strada gigantesca si restringe sempre più nel cimitero, conferendo maggiore tensione al testo. Quando si arriva alla piazzetta questa si trasforma nel centro del mondo. È il momento in cui si capisce che la cerimonia serve anch'essa per trasformare Burundún in un mito, nella genesi e nell'apocalisse (cosa che permetterebbe la definitiva perpetuità del potere). Appaiono però degli elementi che rompono questo schema ordinato: il cavallo e la natura. Burundún voleva un omaggio alla natura; tra le pp. 9 e 10 l'autore la descrive come se fosse un essere umano in lutto, ma che in realtà introduce indizi sul potere: pioggia, nuvole e oscurità sono presenze intertestuali dei vangeli (vedi il giorno della morte del mio personaggio favorito, il Gesù), ma essendo il testo di Zalamea anti-celebrativo nel lessico e nel tono, sembra che la natura stia scomponendo il dittatore, lanciando un'ombra mortifera sopra coloro che vogliono far risplendere lo spettacolo del potere. Il dittatore non può comandare tutto, è quindi imperfetto. L'allegoria, la metafora e l'iperbole sono invece chiare e trasparenti. Ma come dicevo, a rompere gli schemi imposti dalla dittatura non è solo la natura ma anche (e soprattutto) il cavallo. Questi sceglie la sua posizione all'interno del corteo e osa marciare a suo piacimento. L'insubordinazione di un animale può sembrare poco significativa, ma l'ordine del corteo è talmente preciso che anche il minimo elemento anomalo risulta destabilizzante. La volontà del cavallo (volontà, quindi antropomorfismo) è l'unica in grado di guadagnarsi uno spazio, mentre tutti i sudditi sono costretti ai loro rigidi posti. Zalamea reitera questo espediente narrativo quando, a p. 19, descrive il cavallo come blasfemo, utilizzando quindi schemi della comicità e del grottesco (come grottesche sono d'altronde le pudende del cavallo lì descritte). Zalamea critica così l'ipocrisia che non vuole che si parli di quelle cose lì, tanto brutte tanto peccaminose, indicibili eresie pubiche che possono altresì essere definite in svariati modi. Seguono per i più colti alcuni passi tratti da I sepolcri di Ugo Foscolo: fava, cazzo, fringuello, membro erettile, verga, pene, cetriolo, banana, minchia, pisello, creapoveri, ciolla, pizzellino pendulo, cacchio, lusertulù, randello, cippa, fallo, pistolino, mazza, salsicciotto. A pag. 45 si dice un gran espacio ileso, un vacío por llenar e anche qui è il cavallo ad appropriarsi di quello spazio. È proprio in questo punto che si vede come Zalamea stia elaborando un discorso letterario e politico sul potere, perché il cavallo è descritto come scopritore e conquistatore, e si trova nel centro: il cavallo è allo stesso tempo il personaggio più vicino al dittatore (spazialmente) ed il più lontano (ideologicamente, in quanto unico elemento ribelle). Il cavallo è il solo non omologato, l'unico che non perde la propria identità. Quello che qui fa Zalamea è unificare passato, presente e futuro, poiché il cavallo è il profeta che annuncia l'inizio di una nuova era. La bara rappresenta il libro dell'apocalisse e aprirla significa venire a conoscenza della verità ultima. L'uso delle immagini di Zalamea, difatti, assomiglia molto alle immagini presenti nell'ultimo libro della bibbia. Questa verità ultima sembra certa, al punto che a p. 46 il cancelliere che apre la bara lo fa senza preoccupazione alcuna. La sorpresa nel ritrovarsi di fronte al pappagallo fa esplodere il caos; tutti sono orfani, incapaci di giustificare la propria esistenza. I vocaboli qui utilizzati sono gli stessi usati all'inizio della narrazione, ma ora il significato è completamente diverso; quello che prima serviva a comporre un mondo ora serve a scomporlo. L'esempio lampante è quello della parola vejamen, inizialmente usata come celebrazione, ora come parodia grottesca (e quindi anche a livello meta-narrativo acquista significato, rappresentando il testo stesso di Zalamea). Tutti gli atti di Burundún appaiono ora come burla. L'opposizione campagna/città mostra il centro del potere di Burundún come qualcosa di completamente negativo, ma questa dualità è ambivalente perché l'apocalisse della città non è altro che un carnevale con la funzione catartica di eliminare la paura e la morte per lasciar spazio all'utopia. A p. 48 la città viene abbandonata dagli uomini, occupata invece dal cavallo e dalle cose, che peraltro sono gli unici elementi della narrazione ad avere caratteristiche umane. Questi elementi sono la dimostrazione del fatto che il regime non potrà mai avere il controllo di tutto. Quindi la città è ora il luogo della speranza, il polo positivo, perché è lì che si concentrano tutte le cose buone che Burundún non ha potuto eliminare. A livello spaziale si produce un viaggio che va da un centro ad un altro centro, ma ciò si traduce in un fallimento, si trasforma nella vittoria di quei pochi simboli che si opponevano al regime. Il narratore infatti, a p. 37, dice che il viaggio va de la nada a la nada; questa è una perfetta sintesi della dittatura. È inoltre solo il dittatore che dovrebbe viaggiare da un centro all'altro, il resto del corteo parte da una periferia per arrivare ad una periferia. I riferimenti temporali sono solo due, a p. 9 (dos de la tarde) e a p. 45 (seis de la tarde), ma il loro valore è puramente formale. L'assenza di altri riferimenti si ricollega alla mancanza di riferimenti spaziali concreti. Sappiamo che la narrazione si sviluppa in 4 ore, ma la linearità è costantemente interrotta, creando una continua stasi. Il tempo è quindi statico. La cronaca comincia due volte, una dando le coordinate spaziali, l'altra quelle temporali, confondendo i limiti della comprensione del lettore. L'idea del tempo è quindi quella dell'eterno presente che descrive un corteo avvenuto in un passato lontano e indefinibile (aquel día). Ricordiamoci che il cronista dispone gli eventi secondo quanto voluto dal dittatore; questo è ciò che giustifica il linguaggio retorico e magniloquente della narrazione. Il fine di Zalamea è anche in questo frangente quello di dirci che l'esercizio del potere è una farsa. Zalamea sviluppa un tempo che arriva alla staticità completa, ovvero all'eterno presente. Possiamo quindi affermare che la differenza tra passato e presente è debole per volontà del dittatore stesso, ché vuole cancellare la memoria storica. Il testo è così una grandiosa sintesi della storia di Burundún. Zalamea arriva alla costruzione dell'eterno presente grazie alla disposizione del corteo: prima parte con l'esercito (strumento di creazione del regime), poi con la polizia (strumento di preservazione del regime). Il passato violento necessario alla creazione del regime, quindi, si dilata fino al presente. Ma è anche importante notare come esercito e polizia siano accompagnati dalle autorità ecclesiastiche, che a loro volta permettono il regime. Il futuro è invece possibile perché il cronista ci fa intuire la continuità del regime tanto nel corteo quanto nella figura del canciller, suo naturale erede. A p. 36 appare un aspetto scenografico che ci mostra come il narratore si occupi anche del passato più remoto di Burundún, quello dell'epoca pre-burunduniana. Lì la democrazia è vista come un'inutile barbarie. La successiva enumerazione di altri residui del passato serve come esempio di tutte le altre cose inutili e primitive. In generale si osserva che Zalamea si riferisce a figure dell'America pre-colombiana, come a voler dire che per il regime tutto ciò che non è bianco è necessariamente barbaro e da eliminare. La visione di questa America pre-colombiana è continentale e integrale, cioè mette insieme tutte le varie civiltà. Il fatto che si arrivi al cimitero alle 6 richiama i vangeli (il nostro beniamino Gesù morì proprio a quell'ora), strategia usata da Zalamea in modo da trasformare Burundún in un messia, anche se il risultato finale sarà quello della trasformazione in un mito (il pappagallo). Quello che Burundún consegna ai suoi sudditi è quindi un mondo in cui il passato è reso meramente didattico e in cui il futuro è destinato a ripetere continuamente il presente. La rappresentazione del mondo di Burundún serve anche a trasformare il tempo individuale dei cittadini in un tempo eternizzato che serve per controllare i sudditi, per disumanizzarli. Il prodotto perfetto di questo regime paralizzato è il partito, ché ha eliminato i suoi nemici, rappresentanti di quel passato da cancellare (p. 36: el Partido: el auténtico, el sin nexos con el pasado). Tra le p. 36 e 37 il partito viene descritto in linee generali e lì si trovano tutte le caratteristiche del regime (violencia, silencio, consentimiento previo, nada de la eternidad). Burundún è un classico tiranno (fondatore, moltiplicatore, creatore, a seconda dell'etimologia). Nella descrizione del partito ogni membro è un replicante: nessuno ha il naso, i loro passi sono tutti identici, ecc. È la metafora dell'impossibilità di cambiare, d'interrompere la marcia del potere. E vi è anche una tendenza suicida, considerando che il fine di questa marcia è la morte. Si osserva che in questo passaggio Zalamea produce un fenomeno evolutivo, perché si passa dallo stato liquido (río, catarata) a quello solido (polvo) fino alla smaterializzazione (nada, eternidad). È il passaggio dalla materia alla non materia, dal fisico al metafisico, dalla vita alla morte; ciò significa che qualsiasi forma di esercizio del potere conduce alla morte. Il paradosso è che questo destino non spetta solo ai sudditi o ai nemici, ma anche al dittatore stesso. A p. 45 non è un caso che appaia Chronos, simbolo del tempo e, nel mito greco, divoratore degli uomini. Nel testo la statua è rovinata dagli anni, come se il tempo volesse distruggere se stesso; il volto della statua sintetizza il paradosso di un tempo immobilizzato, seguito poi da diversi ossimori che simbolizzano l'innaturalezza mortifera del tempo. Zalamea scrive allo stesso tempo un discorso ufficiale ed un discorso critico grazie al sapiente uso delle immagini (vedi p. 21, in cui il cronista anticipa un ritratto celebrativo ma intanto ci mostra la finzione che sta dietro al potere). Con il frammento a p. 21 si chiude la prima parte e si dimostra l'abilità di Zalamea nell'unire il discorso ufficiale con l'ironia. Qui il narratore mette due piccoli incisi in cui insinua dei dubbi, cioè che la cronaca del funerale non è stata fedele alle disposizioni del Burundún. È un atto di ribellione che da una parte svela la menzogna del potere e dall'altra evidenzia il doppio ruolo del narratore (voce di regime e allo stesso tempo suo più forte e feroce critico). Nella comunicazione del regime c'è quindi una falla che si tenta di risanare con l'esaltazione del potere che si trova in epiteti come Gran Reformador. L'ultima frase del frammento è apertamente critica, chiarendoci il carattere sarcastico e parodico di questa celebrazione. Nel frammento si concentrano anche molte delle forme stilistiche usate da Zalamea: la sintesi, il sarcasmo, il paradosso (quando menziona los anales, già negati dall'inciso) e l'anticipazione e la prolessi (reiterata in tutto il testo con diversi meccanismi). Il lettore non si rende conto immediatamente dell'importanza delle parole usate che, come già detto, pian piano slittano semanticamente, chiarendosi del tutto solo alla fine. La progressione arriva al climax, trasformando affermazioni generiche in affermazioni perentorie (un esempio significativo è il concetto di vizio nei Reformadores alle p. 21, 25 e 29). Così persino il modo di scrivere diventa critico nei confronti del regime. È importante notare come l'annullamento del tempo porti alla continua ripetizione delle stesse immagini, ergo a variare sono proprio i soli valori semantici delle parole, spingendoci a reinterpretare il testo instancabilmente. Quello che ha fatto Burundún è costruire un mondo apparentemente felice per i suoi sudditi ma che in realtà è solo finzione. Il tempo risulta dinamico nella struttura e statico nel testo. Il linguaggio e la parola sono gli elementi costitutivi del testo, come già dimostrano le epigrafi di San Giovanni, Shakespeare e Lope de Vega; quest'ultimo, in particolare, riassume la scomposizione dell'uomo operata dalla perdita della parola. Alla fine colui che trionfa è soprannominato Gran Parlanchín: Burundún quindi sa parlare; poi balbetta; poi progetta di eliminare le parole; poi le abolisce; e alla fine si trasforma in pappagallo, ritornando a quello stato di parlante che aveva cercato di cancellare per sempre. La parola è lo strumento principale per la conquista del potere da parte del dittatore, è uno strumento al servizio del terrorismo psicologico, un'arma distruttiva. Le stesse frasi che nel testo glorificano le capacità oratorie del dittatore sono infatti quelle che più lo criticano. Zalamea probabilmente è fra i primi in America Latina a non assumere del tutto i valori del realismo grottesco originario, ché per Bachtin il grottesco mette in scena una sola visione del mondo, mentre l'autore colombiano crea immagini ambivalenti e polisemiche, annullando la carica positiva che le parole hanno nel loro significato originario: egli restringe il valore semantico per attribuirgli un nuovo valore morale. Come se ciò non bastasse, Zalamea aggiunge al suo stile le nuove tendenze del neo-barocco ispano-americano (che a sua volta, ovviamente, riprendeva il barocco spagnolo) e facendo questa scelta lo trasforma nel carattere definitorio del suo dittatore (vedi inizio di p. 22, con la zoomorfizzazione di Burundún). Egli è un mostro, e nella sua mostruosità fisica si insinua anche la sua mostruosità morale. Questa mostruosità contagerà tutto il popolo e l'elemento di diffusione del morbo sarà proprio la parola (anche a livello lessicale, tra pp. 22 e 23, vengono usate termini tipici dell'ambito medico-patologico). I discorsi di Burundún, a causa del suo f-f-f-f-farfugliamento, non hanno significante e quindi non riescono a trasmettere alcunché; i suoi discorsi appartengono ad uno stadio pre-linguistico. Il pensiero, come ben sappiamo, non può precisarsi senza l'ausilio della parola. Per Saussure, come poi per Barthes, il linguaggio ha un valore sociale, poiché ogni individuo fa corrispondere alle stesse parole gli stessi concetti. In Burundún succede il contrario, come il cronista ci dice a p. 23, dove domina l'autoreferenzialità (assenza di un messaggio, uso ossessivo del linguaggio con la ripetizione degli stessi vocaboli ma con significati differenti). Così, ad esempio, la parola palabrear sta per un discorso vuoto, sottolineato appunto dall'epiteto Gran Parlanchín. Tuttavia in quel passo si dice che il dittatore era anche escribidor elocuente, quindi capace di comunicare. La vicinanza di termini ossimorici è una strategia tecnica usata ripetutamente da Zalamea e crea il registro sarcastico che caratterizza l'opera. Il significato letterale risulta sempre smentito dal contesto in cui viene posto (è una caratteristica tipica della nueva novela hispano-americana, di cui Zalamea è considerato un precursore). Questo permette alla voce narrante anche di giocare col lettore, che solo una volta terminata la lettura riesce a ricomporre i pezzi di questa eterogeneità lessicale; ogni termine definisce il suo significante grazie a relazioni di opposizione e di analogia sia con le parole che lo circondano sia con quelle che si trovano in altre parti del testo. In questo gioco col lettore l'opera definisce la lingua come sistema; la scrittura di Zalamea nega quindi il discorso del dittatore (che non arriva mai ad essere linguaggio). Narratore e dittatore hanno una visione opposta della parola, positiva per il primo perché domina la coscienza e negativa per il secondo, forse per lo stesso motivo. Per Zalamea la parola significa libertà e uguaglianza. Nel secondo paragrafo di p. 23 il narratore ci dice che Burundún usava le parole per distruggere e per cancellare le cose positive. La parola immateriale ha come obiettivo altre cose immateriali ma che sono fondamentali per l'essere umano; tutte cose che per esistere necessitano della comunicazione verbale (la pace, l'amore, la giustizia). Non possedendo un linguaggio ed essendo quindi incapace di articolare un pensiero, Burundún risulta un personaggio vuoto. La sua bestializzazione è la chiave interpretativa di tutta la sua dittatura. Dal punto di vista del tiranno la parola genera tristezza e disuguaglianza, mentre per il narratore è il summa della capacità creativa dell'uomo e significa libertà ed eguaglianza. Zalamea usa gli schemi del grottesco per fare del dittatore una persona del tutto ridicola e addirittura repellente (tanto más amplio el sendero que perforaba ante su creciente y malsana obesidad y tanto más nauseabundo el que iba cegando a sus espaldas). A p. 24 la zoomorfizzazione del dittatore è completata e l'immagine del pappagallo è un paradigma della sua ridicolaggine (sembra una parodia degli uccelli considerati davvero sacri, l'aquila ed il condor). Lì il cronista usa eufemismi perché vuole prendere le dovute distanze dalla critica al dittatore, ma anche in questo modo il testo si rende parodico (parodico del testo ufficiale). Si può parlare di una schizofrenia lessicale in grado contemporaneamente di essere parte integrante del discorso ufficiale e profonda critica allo stesso. Con ironia e sarcasmo quindi il narratore fa una cronaca e intanto sviluppa una feroce critica. Nessuna versione della realtà può opporsi al dittatore e si può concludere che, nonostante il vuoto del suo pensiero, la sua parola raggiunge l'obiettivo di distruggere qualsiasi opposizione alla stupidità del regime. Dopo aver distrutto le cose che assumono valore solo attraverso la parola, il Burundún si occupa di distruggere la parola stessa (come si vede a p. 14, dove i sudditi comunicano solo attraverso grugniti e versi). Il gemido diviene forma di comunicazione e non è un caso che gli animali gemano quando si stanno avvicinando alla morte. A p. 20 questa situazione pseudo-comunicativa viene iperbolizzata nello sterminato elenco che conclude il capitolo. La prima cosa che si può dedurre dal testo è che mai Burundún è stato in grado di dominare il linguaggio, mentre esso era patrimonio comune del popolo. Il dittatore capisce che la parola è una minaccia e per questo la elimina. Zalamea altera le capacità espressive del dittatore proprio per questo motivo. A p. 24 c'è la descrizione precisa dell'afasia del dittatore e da qui si evince che l'autore ci sta proponendo ipotesi pseudo-scientifiche per creare uno strano effetto comico, riprendendo due tipici temi del grottesco: il motivo della bocca e la tecnica dell'enumerazione delle parti del corpo. La bocca aperta generalmente indica una relazione col mondo, evoca l'atto di mangiare (abbondanza) ma è anche atto sovversivo perché ricorda l'incontestabile bellezza di quel posto meraviglioso che è la vagina (quindi critica alla società patriarcale). L'immagine creata da Zalamea è grottesca perché al contrario la bocca di Burundún rimane chiusa e bloccata (ed è forse metafora della sua sterilità, della sua incapacità di amare, della sua miseria emotiva). Il deficit fisico del dittatore è quindi conseguenza di un handicap molto più profondo, quello della sua incapacità mentale ed intellettuale. All'inizio del testo infatti il Burundún è descritto come persona poco sveglia (tra le pp. 24 e 25 viene paragonato ad un ruminante, animale stupido per eccellenza) e quelle che il cronista descrive come idee geniali non hanno in realtà nulla di geniale. L'autore insiste così sui limiti del dittatore. Zalamea ci suggerisce che a Burundún non servono grandi capacità intellettuali per arrivare al suo trionfo. Il dittatore sfrutta i mezzi mediatici messi a disposizione dal Ministerio de la Propaganda e dai detti popolari per intensificare sempre più il suo potere. Burundún altera i significati di questi detti a suo piacimento per attaccare ed aggredire i suoi sudditi. Zalamea insiste su una caratteristica del dittatore, ovvero la capacità propria del potere di appropriarsi del sapere degli altri. Il sapere infatti non è mai neutro e gli uomini del sapere devono scegliere da che parte stare (e in questo caso tutti sono andati a servizio del dittatore). Burundún, a p. 25, dimostra di saper parlare come il popolo, ma conosce la sapienza popolare solo superficialmente; ciononostante questo gli basta per appropriarsene e modificarla a suo desiderio. Alle pp. 26 e 27 l'uso dei quindici proverbi si trasformano nei sostituti della parola articolata, ovvero nell'eliminazione del pensiero. Burundún suscita alienazione e reificazione nel suo popolo, ed è così che la sua riforma arriva a compiersi definitivamente. Il risultato della riforma è un vasto silencio derrumbante. Alla fine il popolo viene assimilato dalla propaganda del dittatore e, rimanendo senza le parole, rimane anche senz'anima. Gli uomini mantengono le loro capacità linguistiche ma non le usano più; a livello allegorico questo è l'elemento sostanziale del potere (di ogni potere), che da una parte viene esercitato tramite le parole e che dall'altra le teme. Una volta resosi conto che la totale abolizione della parola è impossibile, il dittatore comincia a sfruttare la violenza dell'esercito e della polizia. Nell'ambito del linguaggio rientra anche la risata del cavallo. Già abbiamo visto come esso rappresenti l'unico elemento incontrollabile e ribelle; ma la sua ribellione non è tanto nel gesto quanto nel suo linguaggio. L'animale è l'unico che ride in tutto il testo quindi, paradossalmente, l'unico ad avere caratteristiche umane. Questa scelta di Zalamea può apparire incomprensibile, ma non si tratta solo di una scelta retorica, bensì anche di una feroce critica alla disumanizzazione del potere. L'autore esprime attraverso il cavallo tutte le possibili opposizioni (politica, morale, fisica). L'autore concede spazio alla positività della risata. A p. 18 l'animale è nominato caballo de batalla ed è definito in base alla sua relazione con Burundún; subito dopo, con le varie esclamazioni, la descrizione diviene magnificatoria (come se il cronista celebrando il cavallo volesse celebrare anche il dittatore); tuttavia la perfezione del cavallo contrasta con l'aspetto del suo proprietario. È qui che si produce il contrappunto (cavallo = alto, positivo; Burundún = basso, negativo). Questa è la descrizione dell'emblema di un cavallo, elevando l'animale ad una dimensione simbolica in due aspetti che contrastano con il dittatore: la libertà e l'umanità. La sua umanizzazione è portata avanti grazie a termini e sintagmi che descrivono azioni tipiche dell'umano; inoltre il fragmento a p. 18 ci mostra le cose dal punto di vista del cavallo, mettendo così in rilievo i suoi desideri (in primis quello di libertà). Il cavallo si rende conto della bestialità del dittatore ed in questo modo i valori appaiono invertiti. L'animale pensa e ha sentimenti (cose che gli permettono di essere libero), ed inoltre la sua danza lo rende l'unico personaggio non costretto a seguire il ritmo del corteo. Anche il suono delle parole sembra voler dare il ritmo di una danza, mentre più avanti esse riprodurranno solo la parlata cacofonica del Burundún. Per Bachtin la risata era legata direttamente con l'idea di libertà e preannunciava un futuro ricco e abbondante. La risata del cavallo ha così un valore utopico in grado di immaginare un futuro senza dittatura e senza violenza; il cavallo si burla del funerale perché è il funerale del potere. A p. 19 la progressione stilistica e di contenuto aumenta le capacità di raziocinio del cavallo, ponendolo sempre più in contrasto col dittatore; la scrittura si fa ancor di più danza e immagine, dando forma ad un'icona che ne ricorda una che è già nell'immaginario collettivo: Guernica di Picasso. L'aspetto forse veramente rivoluzionario del cavallo è che danzando e ridendo apre la festa, il carnevale grottesco. Anche qui viene invertita l'immagine tipica del grottesco perché il vecchio (Burundún) altro non è che un cadavere, negando quindi la tradizionale ciclicità della vita. Si evidenzia ancora l'esistenza di due registri, quello ufficiale e quello carnevalesco (vedi anche le varie allusioni sessuali nella descrizione del cavallo). Gli elementi sessuali sono proprio quelli con cui Zalamea si appropria definitivamente del grottesco; lo stesso linguaggio si occupa di smentire il senso mitico di Burundún, aprendo così la possibilità di un futuro nuovo che neghi l'eterno presente rappresentato dalla dittatura. Leggendo il testo si comprende che gli aspetti ridicoli del dittatore non limitano la critica ad una condanna ideologica ma arrivano ad esprimere una condanna morale. È proprio la risata del cavallo, con la sua forza rigeneratrice ed utopica, ad avanzare questa condanna morale. La figura del cavallo è quindi l'elemento complementare al dittatore, il polo positivo che si contrappone a quello negativo. La complessità della struttura linguistica è data non solo dallo strumento formale, ma soprattutto ha funzione di contenuto in quanto il linguaggio si contrappone al vuoto del parlato del dittatore. Zalamea recupera così i valore libertario delle parole attraverso la sua forma più neutrale e grottesca: la risata. La logica emanazione della figura del dittatore è la violenza: sia la violenza sia il dittatore appaiono solo indirettamente nel testo, ed è interessante notare come l'uno definisca l'altra. Il dittatore non partecipa mai attivamente alla violenza, ma delega altri a farlo (il potere delega sempre), e per la precisione l'esercito e la polizia, le due braccia armate della polizia. Burundún, in quanto di origine borghese, si differenzia tanto da Facundo (che era un caudillo) quanto dal patriarca di García Márquez (militare); eppure la violenza del Burundún è senza precedenti, ha eccessi spettacolari e assume un valore simbolico in quanto fondata sulla paura. Il ruolo della violenza è analizzabile tramite gli strumenti umani usati dal dittatore. La tattica della tierra arrasada (vedi p. 12) è descritta prima con i tre rami dell'esercito, che sono il primo esempio di ricorso all'immaginario grottesco (zoomorfizzazione degli elementi). La comparazione tra zapadores e territoriales è significativa: le immagini proposte alle pp. 10 e 11 ci rimandano a campi semantici già usati nella descrizione di Burundún, ma in questo caso nessuna delle caratteristiche dei militari descritti appartiene all'essere umano (assenza di occhi, forma della testa). Eliminando l'umanità si eliminano anche l'identità e l'individualità. Le parti del corpo sono pura materia in decomposizione. I soldati vengono inoltre paragonati ai maiali e agli elefanti. Eppure Zalamea nega a questi personaggi caratteristiche ripugnanti, ché ad essere ripugnante deve essere solo il dittatore. L'autore colombiano applica l'essenza minima dei militari agli elementi tecnologici di distruzione, ed in particolare la maschera antigas occulta loro il volto umano. Anche gli aviatori usano mezzi ultra-tecnologici e per loro la descrizione fisica è del tutto assente, anche perché la peculiarità principale di questo corpo militare è l'invisibilità. Quando vengono descritte le tecnologie degli aviatori le immagini rimandano alle viscere ed ai genitali. Anche qui le costruzioni sono ossimoriche, descrivendo questi elementi con caratteristiche positive o viceversa. Nell'economia generale del testo questo ci prepara all'incontro con la violenza e si configura come prolessi della figura del dittatore. I militari non sono altro che emanazioni di Burundún e la sensazione che questi uomini non abbiano personalità crea una sorta di consustazione per cui i militari apparentemente agiscono secondo norme precise. La contrapposizione tra animali indifesi e militari è una metafora del trattamento riservato dal regime al popolo. Inoltre il popolo non viene citato se non per gli oppositori, che sappiamo essere eliminati violentemente, ma questa violenza non viene descritta. Zalamea lascia che sia il lettore ad immaginare il metodo. C'è costantemente una contrapposizione tra bene/vita e male/morte, ma paradossalmente la prima coppia è rappresentata dagli animali, la seconda dagli esseri umani. Zalamea non descrive mai la violenza: vi allude, la suggerisce, ma non la descrive; l'autore vuole eliminare l'aneddotica della narrazione, e così la violenza può solo essere immaginata. Il ruolo del dittatore si chiarisce a p. 12, dove ci viene detto che i morti non sono altro che il frutto delle debolezze e dei pruriti di Burundún. Con l'ecatombe di paperi creata dagli aviatori ci viene data una grande immagine della morte, e starà al lettore immaginare come essa sia simbolica della violenza che il regime ha perpetrato sugli esseri umani. Dietro all'esercito il narratore colloca la polizia; qui l'animalizzazione diviene bestializzazione, quindi un processo ancor più radicale. Quando Zalamea descrive l'odore dei poliziotti (p. 15) suscita la repulsione e la nausea del lettore, allegorizzando ancora una volta il loro valore morale. È così che l'autore fa capire il valore dell'intera istituzione della polizia senza descrivere alcuna loro azione. D'altronde, come insegna Foucault, la polizia agisce in maniera subdola e sotterranea e non ha bisogno di mostrare costantemente il suo potere. Noi sappiamo che gli occhi della polizia ci stanno osservando anche quando noi non li vediamo. D'altra parte Zalamea non parla mai di oppositori al regime, e in un ambito in cui manca l'opposizione attiva non si riesce a capire perché il potere eserciti tanta violenza; probabilmente secondo il dittatore ogni cittadino è un potenziale nemico e per questo la sua opposizione va prevenuta con la forza. Eliminando l'aneddoto l'autore colombiano ci porta al nucleo del problema: non esiste una causa concreta perché il regime generi la violenza, ma esso della violenza si ciba e non può farne a meno. La grande arma del dittatore è la paura, con la quale garantisce la sua opera di sterminio (fisico e mentale). Tra le pp. 31 e 32 si intende la dimensione della violenza generata proprio dalla paura. L'autore tratta il motivo della paura con insistenza in modo da comprendere i suoi meccanismi profondi. La violenza di Burundún è l'essenza stessa del potere, ed il dittatore non è in grado di rigenerarsi senza di essa. Il potere non può cercare di evolversi perché erige la sua forza sulla preservazione dello status quo e sfrutta proprio la paura per portare avanti questa funzione. Il potere convince i sudditi che questi vivano nel migliore dei mondi possibili e lo fa attraverso la paura. Burundún raggiunge la complicità dei suoi sudditi non tanto attraverso la violenza fisica, bensì attraverso una violenza molto più sottile: il potere disciplinario, come descritto dall'onnipresente Foucault, è uno strumento per il controllo dell'anima. Per Foucault il concetto di anima riassume l'intelligenza, i sentimenti, la capacità critica e tutti quegli elementi che ci rendono umani. Il corpo del cittadino viene così violato senza che esso subisca alcuna azione fisica. Foucault sottolinea il fatto che il suddito non è l'oggetto finale, bensì è lo strumento per raggiungere il controllo dell'anima. Il dittatore è allegoria di tutti i dittatori del XX secolo, cioè di quel periodo che Foucault aveva definito epoca disciplinaria, ed è interessante notare che Zalamea si riferiva al continente latino-americano affollato di dittature, Foucault alle democrazie europee, eppure questa caratteristica del potere non cambia. La reinterpretazione del linguaggio dato dalla continua ripetizione dei modi di dire costituisce un discorso onnipresente ma quasi impercettibile che rende i cittadini dei soggetti obbedienti (altra espressione di Foucault). La grande maggioranza del popolo arriva a credere che il silenzio sia una scelta cosciente dei cittadini. Burundún giustifica l'eliminazione delle differenze individuali, e lo fa cercando la felicità dei propri sudditi, o meglio per far credere loro di essere felici. Altro meccanismo chiave del potere è il controllo del tempo e anche qui ci si riallaccia a Foucault; il modello del Panopticon può essere applicato a qualsiasi istituzione della società disciplinaria, trasformando anche i “normali” cittadini in uomini con sentimenti previ. Zalamea paragona la chiesa all'esercito e alla polizia (p. 17), chiarendo tanto il fatto che la religione impone lo stesso tipo di controllo quanto il fatto che anche i prevosti sono solo uno strumento del potere. A differenza del passato, le gerarchie religiose non esercitano più direttamente la violenza, bensì sono collusi col potere e gli garantiscono un tacito accordo. La microfisica del potere ha bisogno anche di norme, ed il mondo di Burundún funziona proprio in questo modo. L'affermazione che rappresenta tutto quello che il dittatore è agli occhi di Zalamea è parto de cadáveres, ovvero un creatore di mattanze continue. A p. 31 l'autore dice: a los financistas no tuvo que manejarlos: lo manejaban ellos. (¡Y el Burundún-Burundá creía no saberlo!), facendo intendere che forse anche quello che sembra il burattinaio è in realtà un burattino nelle mani di qualcun altro. Questa è la vera origine del Burundún (ed in generale di tutte le dittature latino-americane), ovvero la presa del potere delle élite economiche. Il vero problema non sono gli zapadores, non sono i territoriales, non gli aviadores, ma sono proprio i componenti di questa élite economica da cui tutto deriva. L'importante è che il popolo non si accorga di questo sdoppiamento del potere, della presenza dei financistas dietro al dittatore, perché il Burundún deve essere l'alfa e l'omega, deve essere una sorta di divinità terrena. Ma quando il dittatore non serve più queste eminenze grigie che vi stanno dietro non devono far altro che sostituirlo o trasformarlo in capro espiatorio (qualcuno ha detto Gheddafi?) in modo da poter conservare il potere di quelle stesse eminenze. A p. 38 questi vengono perfettamente descritti: Pero éstos eran apena la vanguardia de una tropa más fogueada y ladina: las eminencias detrás del trono, el diablo tras la cruz, los empresarios auténticos de la gran titeretada burunduniana. Con sus glabros rostros, sus ojos ingenuos, sus recias mandíbulas y sus trajes de corte impecable, eran el arquetipo del nuevo “uomo universale”. Osservando questo frammento nel dettaglio notiamo che le descrizioni fisiche ci portano a persone altamente civilizzate (al contrario dei poliziotti). Ma questa eleganza e bellezza è semplicemente una maschera, e non una maschera qualsiasi, bensì la più pericolosa di tutte le maschere. Subito dopo, difatti, la descrizione delle loro azioni si fa arma potentissima; qui non c'è più né ironia né satira, ma una descrizione indignata che lancia un grido che assomiglia a quello di dolore lanciato da Picasso in Guernica e da Munch nell'Urlo. Il popolo viene trattato, a p. 39, come un maiale, ché il maiale è l'unico animale di cui non si butta via niente. Anche qui l'aspetto comico è tralasciato per dare spazio all'orrore della carneficina. L'ambiguità del teso viene momentaneamente messa da parte in favore di una critica radicale, e in questo clima Burundún non è nulla più né nulla meno che uno strumento di morte. Il libro però non è privo di speranza, anzi ci permette di vedere anche l'altra faccia della medaglia grazie alle risate del cavallo. La metamorfosi del Burundún in pappagallo è ciò che lascia i suoi sudditi senza riferimenti sul da farsi e che non permette che il meccanismo del potere continui a funzionare. Alla fine del racconto la violenza, garanzia della sopravvivenza del regime, si rivela inutile. L'esercito reagisce come sempre, cioè sparando ad minchiam, ma stavolta senza riuscire a calmare il caos della folla. Non muore nessuno nella scena, non c'è spargimento di sangue; la dittatura ha perso il suo potere, ha ido de la nada a la nada, come ci dice l'autore all'inizio del testo. Il funerale diventa una festa carnevalesca in cui tutto ciò che era stato cancellato dal regime può finalmente tornare a galla.

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Editore:

Lingua: (DATO NON PRESENTE)

Numero di pagine: 91

Formato: (DATO NON PRESENTE)

ISBN-10: 8482770241

ISBN-13: 9788482770246

Data di pubblicazione: 1952

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Jorge Zalamea

El gran Burundún-Burundá ha muerto

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Inserito il 30-01-2014 da Alberto Rossi
Aggiornato il 30-01-2014 da Alberto Rossi
Disponibile in 1 libreria
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Recensioni

Alberto Rossi

Siccome sto in qualche modo lavorandoci su questo misconosciuto libriccino del Zalamea, quella che segue è più che altro una raccolta delle note che ho preso leggendo questo meraviglioso romanzo breve, anticipata da una breve sinossi: la voce narrante è quella di una cronaca che deve entrare negli annali di questa nazione, evidentemente ispano-americana ma di cui non si riferisce il nome. L'azione prende luogo tutta nel corteo funebre del compianto dittatore, il Burundún-Burundá del titolo. Ovviamente il corteo è chilometrico, con in testa le varie autorità (politiche, religiose, militari) e via via il popolo. Tutti, dal primo all'ultimo, sono terribilmente dispiaciuti della morte del loro capo perché, e qui viene il punto di genio, la più grande riforma del Burundún fu quella di togliere la parola al suo popolo. Non la libertà di parola, ma la parola in toto. E senza parola addio pensiero, e senza pensiero addio sovversione. Con quella sua mossa Burundún ha preparato un'intera nazione di teste non-pensanti che seguivano il capo. E basta. Nel finale però, un gran cancelliere va ad aprire la bara, e al suo interno non v'è più il corpo del dittatore, bensì un pappagallo fatto con i fogli di giornale; nel corteo, che vedeva praticamente tutti i cittadini del paese in uno scodazzo chilometrico, scoppia il panico. Tutto qui, non succede nient'altro, ma l'immagine finale è bellissima: nel mezzo delle grida di dolore e di disperazione della gente in preda al panico, l'unico elemento sovversivo è il cavallo che apriva la parata, che se ne sbatte delle convenzioni umane e ride, ride e ancora ride mentre tutti gli altri piangono. Qui di seguiti i miei appuntini: L'incipit dell'opera parla solo di problemi inerenti il potere, la parola e lo spazio, assumendo da subito una dimensione allegorica. È esemplare, nel testo, l'ecatombe degli uccelli: questa dimostra la mancanza di umanità e l'incapacità assoluta di comunicare coi suoi sudditi del dittatore. Questo progetto, nato per dimostrarsi benefattore del popolo, divenne una pioggia di cadaveri; la morte ed il potere coprono completamente la città, insinuandosi nella vita privata degli uomini. Il mondo è immobile e umiliato. L'invasione degli spazi privati è portata avanti con costanza dal dittatore, come si vede alle pagg. 25-26, dove le stesse parole continuano a ripetersi ovunque; sono le parole suicide volte ad eliminare il linguaggio stesso. In questa parte il ritmo, la sintassi, l'anafora e le altre figure retoriche sono incredibilmente poetiche e descrivono con precisione il potere del dittatore, che arriva ovunque pur non entrando mai in scena. Questa prepotenza arriva fino alla mente dei sudditi; il dittatore sembra avere il dono dell'ubiquità, ché non c'è luogo che non venga raggiunto dal suo potere. Vivo o morto Burundún si trova sempre in luoghi chiusi ed inaccessibili (il palazzo, la bara, la piazzetta del cimitero). Questi spazi sono l'emblema di un potere che non ha mai relazioni col popolo. La netta distanza tra Burundún ed i suoi sudditi però non gli impedisce il dominio assoluto; rinchiudendosi afferma la sua immagine di dio onnipresente ma invisibile. Questa è manifestazione dell'aspetto disciplinario del suo potere, e difatti il potere di Burundún si sviluppa, a livello sociale e spaziale, come una sorta di panopticon. Al controllo nulla sfugge. L'effetto è l'assoluta disciplina dei sudditi. La forza del controllo però trova il suo massimo splendore nel suo carattere subdolo poiché il suo effetto risulta nella finzione del controllo, nel far credere ai sudditi che essi siano costantemente controllati. Il controllo elimina qualunque tipo di organizzazione orizzontale; la struttura della società è solo verticale, perfettamente gerarchica. Le relazioni umane sono quindi fittizie. Da qui si produce una forma di alienazione, e le uniche relazioni possibili son quelle familiari, che sono però simbolo di una triste stagnazione (a pag. 14 la descrizione di un nucleo familiare tipo in cui nessuno ha possibilità di redenzione). Zalamea, attraverso la voce narrante, enfatizza la condizione di immobilità e di abbandono dei sudditi. Nonostante tutto ciò, lo spettacolo è grande. Il funerale è infatti un altro punto dove il potere mostra la sua forza e dove ripete se stesso all'infinito. I tre elementi simbolici sono la basilica, la strada ed il palazzo. L'ufficialità del potere invade la strada (nucleo della città). Ma l'autore qui suggerisce soltanto il tempo e lo spazio e non mostra mai la piazza pubblica, luogo di confronto dialettico per eccellenza (mentre la strada è luogo di passaggio e di dimostrazione del potere). La basilica è un referente spaziale, ma non definisce un luogo concreto. L'autore rarefà l'atmosfera, premendo così sul carattere mitico e simbolico della narrazione. Il potere è quindi anche religioso, servendo l'autorità clericale come fonte di legittimazione del potere politico (l'autorità clericale rimane comunque sempre subordinata a quella politica). La basilica ha valenza simbolica perché è il referente spaziale dove il dittatore mette in scena il suo spettacolo. L'aggettivazione nel testo è carica e barocca, sempre volta all'esagerazione (vedi la fine di p. 19, dove ogni elemento è caratterizzato da un colore, rendendo la descrizione estremamente visiva). Subito dopo, a p. 20, vengono usati 36 forme verbali che identificano 36 diversi animali, anche questo a dimostrare l'estrema capacità retorica di Zalamea. L'esasperazione della retorica è affascinante soprattutto perché zoomorfismo e antropomorfismo hanno una relazione dialogica; questo è uno stratagemma tipico della cultura popolare medievale, che descrive il potere sotto forma animalesca. Anche la strada e la basilica hanno una valenza simbolica che viene dalla tradizione, quella che pretende che i sudditi capiscano facilmente la dimensione gargantuesca del potere grazie ad opere architettoniche mastodontiche; d'altronde Zalamea ha visto e vissuto diversi regimi, e con questa descrizione vuole riassumerli tutti. Il valore simbolico è intensificato, rendendo i diversi luoghi del potere dei personaggi la cui funzione è quella di consegnare il potere al dittatore. In realtà nel testo il regime non è accettato con una collaborazione attiva del popolo, bensì con un'attitudine passiva; la gente accetta il potere perché ha perso qualsiasi dignità individuale (vedi pp. 35-36). Tutte le identità finiscono per riconoscersi nel Partito. Nelle mani di Burundún la retorica diventa vuota: non gli interessa mostrarsi sempre in primo piano, ma portare avanti un regime che inaugura una nuova era, un nuovo ordine politico e sociale che continua all'infinito (come il corteo funebre). Nel tempo della narrazione Burundún è già morto, viene solamente evocato, proprio come perpetua presenza. Il mondo è statico proprio come voleva Burundún, e la staticità è dimostrata dal rigido ordine del corteo. Il corteo legittima un ordine basato sull'esercizio della violenza (l'esercito, seguito dalla polizia e poi dalla chiesa). Con la polizia e la chiesa vengono rappresentati l'orrore e l'inganno, essi sono altri strumenti per sottomettere il popolo e per informare il dittatore (identificano i comportamenti parzialmente pericolosi). Nella seconda parte l'autore riprende la descrizione del corteo, con i numerosi gruppi che stanno dietro al carro funebre. Questi gruppi rappresentano il presente, sono i sudditi che permettono l'infinito perpetuarsi del regime. I frutti autentici della dittatura, però, sono quei sudditi che appaiono per ultimi (p. 36), anch'essi, nella loro povertà, complici del potere assoluto. Il corteo è quindi la perfetta allegoria delle gerarchie sociali, di chi comanda e chi è suddito. Questa rappresentazione del potere afferma che non c'è spazio per nessuno che viva al di fuori dell'ordine. Per arrivare al cimitero ci si allontana dalla città (centro del potere), ma all'interno del cimitero lo spazio dedicato a Burundún è comunque quello centrale. La strada gigantesca si restringe sempre più nel cimitero, conferendo maggiore tensione al testo. Quando si arriva alla piazzetta questa si trasforma nel centro del mondo. È il momento in cui si capisce che la cerimonia serve anch'essa per trasformare Burundún in un mito, nella genesi e nell'apocalisse (cosa che permetterebbe la definitiva perpetuità del potere). Appaiono però degli elementi che rompono questo schema ordinato: il cavallo e la natura. Burundún voleva un omaggio alla natura; tra le pp. 9 e 10 l'autore la descrive come se fosse un essere umano in lutto, ma che in realtà introduce indizi sul potere: pioggia, nuvole e oscurità sono presenze intertestuali dei vangeli (vedi il giorno della morte del mio personaggio favorito, il Gesù), ma essendo il testo di Zalamea anti-celebrativo nel lessico e nel tono, sembra che la natura stia scomponendo il dittatore, lanciando un'ombra mortifera sopra coloro che vogliono far risplendere lo spettacolo del potere. Il dittatore non può comandare tutto, è quindi imperfetto. L'allegoria, la metafora e l'iperbole sono invece chiare e trasparenti. Ma come dicevo, a rompere gli schemi imposti dalla dittatura non è solo la natura ma anche (e soprattutto) il cavallo. Questi sceglie la sua posizione all'interno del corteo e osa marciare a suo piacimento. L'insubordinazione di un animale può sembrare poco significativa, ma l'ordine del corteo è talmente preciso che anche il minimo elemento anomalo risulta destabilizzante. La volontà del cavallo (volontà, quindi antropomorfismo) è l'unica in grado di guadagnarsi uno spazio, mentre tutti i sudditi sono costretti ai loro rigidi posti. Zalamea reitera questo espediente narrativo quando, a p. 19, descrive il cavallo come blasfemo, utilizzando quindi schemi della comicità e del grottesco (come grottesche sono d'altronde le pudende del cavallo lì descritte). Zalamea critica così l'ipocrisia che non vuole che si parli di quelle cose lì, tanto brutte tanto peccaminose, indicibili eresie pubiche che possono altresì essere definite in svariati modi. Seguono per i più colti alcuni passi tratti da I sepolcri di Ugo Foscolo: fava, cazzo, fringuello, membro erettile, verga, pene, cetriolo, banana, minchia, pisello, creapoveri, ciolla, pizzellino pendulo, cacchio, lusertulù, randello, cippa, fallo, pistolino, mazza, salsicciotto. A pag. 45 si dice un gran espacio ileso, un vacío por llenar e anche qui è il cavallo ad appropriarsi di quello spazio. È proprio in questo punto che si vede come Zalamea stia elaborando un discorso letterario e politico sul potere, perché il cavallo è descritto come scopritore e conquistatore, e si trova nel centro: il cavallo è allo stesso tempo il personaggio più vicino al dittatore (spazialmente) ed il più lontano (ideologicamente, in quanto unico elemento ribelle). Il cavallo è il solo non omologato, l'unico che non perde la propria identità. Quello che qui fa Zalamea è unificare passato, presente e futuro, poiché il cavallo è il profeta che annuncia l'inizio di una nuova era. La bara rappresenta il libro dell'apocalisse e aprirla significa venire a conoscenza della verità ultima. L'uso delle immagini di Zalamea, difatti, assomiglia molto alle immagini presenti nell'ultimo libro della bibbia. Questa verità ultima sembra certa, al punto che a p. 46 il cancelliere che apre la bara lo fa senza preoccupazione alcuna. La sorpresa nel ritrovarsi di fronte al pappagallo fa esplodere il caos; tutti sono orfani, incapaci di giustificare la propria esistenza. I vocaboli qui utilizzati sono gli stessi usati all'inizio della narrazione, ma ora il significato è completamente diverso; quello che prima serviva a comporre un mondo ora serve a scomporlo. L'esempio lampante è quello della parola vejamen, inizialmente usata come celebrazione, ora come parodia grottesca (e quindi anche a livello meta-narrativo acquista significato, rappresentando il testo stesso di Zalamea). Tutti gli atti di Burundún appaiono ora come burla. L'opposizione campagna/città mostra il centro del potere di Burundún come qualcosa di completamente negativo, ma questa dualità è ambivalente perché l'apocalisse della città non è altro che un carnevale con la funzione catartica di eliminare la paura e la morte per lasciar spazio all'utopia. A p. 48 la città viene abbandonata dagli uomini, occupata invece dal cavallo e dalle cose, che peraltro sono gli unici elementi della narrazione ad avere caratteristiche umane. Questi elementi sono la dimostrazione del fatto che il regime non potrà mai avere il controllo di tutto. Quindi la città è ora il luogo della speranza, il polo positivo, perché è lì che si concentrano tutte le cose buone che Burundún non ha potuto eliminare. A livello spaziale si produce un viaggio che va da un centro ad un altro centro, ma ciò si traduce in un fallimento, si trasforma nella vittoria di quei pochi simboli che si opponevano al regime. Il narratore infatti, a p. 37, dice che il viaggio va de la nada a la nada; questa è una perfetta sintesi della dittatura. È inoltre solo il dittatore che dovrebbe viaggiare da un centro all'altro, il resto del corteo parte da una periferia per arrivare ad una periferia. I riferimenti temporali sono solo due, a p. 9 (dos de la tarde) e a p. 45 (seis de la tarde), ma il loro valore è puramente formale. L'assenza di altri riferimenti si ricollega alla mancanza di riferimenti spaziali concreti. Sappiamo che la narrazione si sviluppa in 4 ore, ma la linearità è costantemente interrotta, creando una continua stasi. Il tempo è quindi statico. La cronaca comincia due volte, una dando le coordinate spaziali, l'altra quelle temporali, confondendo i limiti della comprensione del lettore. L'idea del tempo è quindi quella dell'eterno presente che descrive un corteo avvenuto in un passato lontano e indefinibile (aquel día). Ricordiamoci che il cronista dispone gli eventi secondo quanto voluto dal dittatore; questo è ciò che giustifica il linguaggio retorico e magniloquente della narrazione. Il fine di Zalamea è anche in questo frangente quello di dirci che l'esercizio del potere è una farsa. Zalamea sviluppa un tempo che arriva alla staticità completa, ovvero all'eterno presente. Possiamo quindi affermare che la differenza tra passato e presente è debole per volontà del dittatore stesso, ché vuole cancellare la memoria storica. Il testo è così una grandiosa sintesi della storia di Burundún. Zalamea arriva alla costruzione dell'eterno presente grazie alla disposizione del corteo: prima parte con l'esercito (strumento di creazione del regime), poi con la polizia (strumento di preservazione del regime). Il passato violento necessario alla creazione del regime, quindi, si dilata fino al presente. Ma è anche importante notare come esercito e polizia siano accompagnati dalle autorità ecclesiastiche, che a loro volta permettono il regime. Il futuro è invece possibile perché il cronista ci fa intuire la continuità del regime tanto nel corteo quanto nella figura del canciller, suo naturale erede. A p. 36 appare un aspetto scenografico che ci mostra come il narratore si occupi anche del passato più remoto di Burundún, quello dell'epoca pre-burunduniana. Lì la democrazia è vista come un'inutile barbarie. La successiva enumerazione di altri residui del passato serve come esempio di tutte le altre cose inutili e primitive. In generale si osserva che Zalamea si riferisce a figure dell'America pre-colombiana, come a voler dire che per il regime tutto ciò che non è bianco è necessariamente barbaro e da eliminare. La visione di questa America pre-colombiana è continentale e integrale, cioè mette insieme tutte le varie civiltà. Il fatto che si arrivi al cimitero alle 6 richiama i vangeli (il nostro beniamino Gesù morì proprio a quell'ora), strategia usata da Zalamea in modo da trasformare Burundún in un messia, anche se il risultato finale sarà quello della trasformazione in un mito (il pappagallo). Quello che Burundún consegna ai suoi sudditi è quindi un mondo in cui il passato è reso meramente didattico e in cui il futuro è destinato a ripetere continuamente il presente. La rappresentazione del mondo di Burundún serve anche a trasformare il tempo individuale dei cittadini in un tempo eternizzato che serve per controllare i sudditi, per disumanizzarli. Il prodotto perfetto di questo regime paralizzato è il partito, ché ha eliminato i suoi nemici, rappresentanti di quel passato da cancellare (p. 36: el Partido: el auténtico, el sin nexos con el pasado). Tra le p. 36 e 37 il partito viene descritto in linee generali e lì si trovano tutte le caratteristiche del regime (violencia, silencio, consentimiento previo, nada de la eternidad). Burundún è un classico tiranno (fondatore, moltiplicatore, creatore, a seconda dell'etimologia). Nella descrizione del partito ogni membro è un replicante: nessuno ha il naso, i loro passi sono tutti identici, ecc. È la metafora dell'impossibilità di cambiare, d'interrompere la marcia del potere. E vi è anche una tendenza suicida, considerando che il fine di questa marcia è la morte. Si osserva che in questo passaggio Zalamea produce un fenomeno evolutivo, perché si passa dallo stato liquido (río, catarata) a quello solido (polvo) fino alla smaterializzazione (nada, eternidad). È il passaggio dalla materia alla non materia, dal fisico al metafisico, dalla vita alla morte; ciò significa che qualsiasi forma di esercizio del potere conduce alla morte. Il paradosso è che questo destino non spetta solo ai sudditi o ai nemici, ma anche al dittatore stesso. A p. 45 non è un caso che appaia Chronos, simbolo del tempo e, nel mito greco, divoratore degli uomini. Nel testo la statua è rovinata dagli anni, come se il tempo volesse distruggere se stesso; il volto della statua sintetizza il paradosso di un tempo immobilizzato, seguito poi da diversi ossimori che simbolizzano l'innaturalezza mortifera del tempo. Zalamea scrive allo stesso tempo un discorso ufficiale ed un discorso critico grazie al sapiente uso delle immagini (vedi p. 21, in cui il cronista anticipa un ritratto celebrativo ma intanto ci mostra la finzione che sta dietro al potere). Con il frammento a p. 21 si chiude la prima parte e si dimostra l'abilità di Zalamea nell'unire il discorso ufficiale con l'ironia. Qui il narratore mette due piccoli incisi in cui insinua dei dubbi, cioè che la cronaca del funerale non è stata fedele alle disposizioni del Burundún. È un atto di ribellione che da una parte svela la menzogna del potere e dall'altra evidenzia il doppio ruolo del narratore (voce di regime e allo stesso tempo suo più forte e feroce critico). Nella comunicazione del regime c'è quindi una falla che si tenta di risanare con l'esaltazione del potere che si trova in epiteti come Gran Reformador. L'ultima frase del frammento è apertamente critica, chiarendoci il carattere sarcastico e parodico di questa celebrazione. Nel frammento si concentrano anche molte delle forme stilistiche usate da Zalamea: la sintesi, il sarcasmo, il paradosso (quando menziona los anales, già negati dall'inciso) e l'anticipazione e la prolessi (reiterata in tutto il testo con diversi meccanismi). Il lettore non si rende conto immediatamente dell'importanza delle parole usate che, come già detto, pian piano slittano semanticamente, chiarendosi del tutto solo alla fine. La progressione arriva al climax, trasformando affermazioni generiche in affermazioni perentorie (un esempio significativo è il concetto di vizio nei Reformadores alle p. 21, 25 e 29). Così persino il modo di scrivere diventa critico nei confronti del regime. È importante notare come l'annullamento del tempo porti alla continua ripetizione delle stesse immagini, ergo a variare sono proprio i soli valori semantici delle parole, spingendoci a reinterpretare il testo instancabilmente. Quello che ha fatto Burundún è costruire un mondo apparentemente felice per i suoi sudditi ma che in realtà è solo finzione. Il tempo risulta dinamico nella struttura e statico nel testo. Il linguaggio e la parola sono gli elementi costitutivi del testo, come già dimostrano le epigrafi di San Giovanni, Shakespeare e Lope de Vega; quest'ultimo, in particolare, riassume la scomposizione dell'uomo operata dalla perdita della parola. Alla fine colui che trionfa è soprannominato Gran Parlanchín: Burundún quindi sa parlare; poi balbetta; poi progetta di eliminare le parole; poi le abolisce; e alla fine si trasforma in pappagallo, ritornando a quello stato di parlante che aveva cercato di cancellare per sempre. La parola è lo strumento principale per la conquista del potere da parte del dittatore, è uno strumento al servizio del terrorismo psicologico, un'arma distruttiva. Le stesse frasi che nel testo glorificano le capacità oratorie del dittatore sono infatti quelle che più lo criticano. Zalamea probabilmente è fra i primi in America Latina a non assumere del tutto i valori del realismo grottesco originario, ché per Bachtin il grottesco mette in scena una sola visione del mondo, mentre l'autore colombiano crea immagini ambivalenti e polisemiche, annullando la carica positiva che le parole hanno nel loro significato originario: egli restringe il valore semantico per attribuirgli un nuovo valore morale. Come se ciò non bastasse, Zalamea aggiunge al suo stile le nuove tendenze del neo-barocco ispano-americano (che a sua volta, ovviamente, riprendeva il barocco spagnolo) e facendo questa scelta lo trasforma nel carattere definitorio del suo dittatore (vedi inizio di p. 22, con la zoomorfizzazione di Burundún). Egli è un mostro, e nella sua mostruosità fisica si insinua anche la sua mostruosità morale. Questa mostruosità contagerà tutto il popolo e l'elemento di diffusione del morbo sarà proprio la parola (anche a livello lessicale, tra pp. 22 e 23, vengono usate termini tipici dell'ambito medico-patologico). I discorsi di Burundún, a causa del suo f-f-f-f-farfugliamento, non hanno significante e quindi non riescono a trasmettere alcunché; i suoi discorsi appartengono ad uno stadio pre-linguistico. Il pensiero, come ben sappiamo, non può precisarsi senza l'ausilio della parola. Per Saussure, come poi per Barthes, il linguaggio ha un valore sociale, poiché ogni individuo fa corrispondere alle stesse parole gli stessi concetti. In Burundún succede il contrario, come il cronista ci dice a p. 23, dove domina l'autoreferenzialità (assenza di un messaggio, uso ossessivo del linguaggio con la ripetizione degli stessi vocaboli ma con significati differenti). Così, ad esempio, la parola palabrear sta per un discorso vuoto, sottolineato appunto dall'epiteto Gran Parlanchín. Tuttavia in quel passo si dice che il dittatore era anche escribidor elocuente, quindi capace di comunicare. La vicinanza di termini ossimorici è una strategia tecnica usata ripetutamente da Zalamea e crea il registro sarcastico che caratterizza l'opera. Il significato letterale risulta sempre smentito dal contesto in cui viene posto (è una caratteristica tipica della nueva novela hispano-americana, di cui Zalamea è considerato un precursore). Questo permette alla voce narrante anche di giocare col lettore, che solo una volta terminata la lettura riesce a ricomporre i pezzi di questa eterogeneità lessicale; ogni termine definisce il suo significante grazie a relazioni di opposizione e di analogia sia con le parole che lo circondano sia con quelle che si trovano in altre parti del testo. In questo gioco col lettore l'opera definisce la lingua come sistema; la scrittura di Zalamea nega quindi il discorso del dittatore (che non arriva mai ad essere linguaggio). Narratore e dittatore hanno una visione opposta della parola, positiva per il primo perché domina la coscienza e negativa per il secondo, forse per lo stesso motivo. Per Zalamea la parola significa libertà e uguaglianza. Nel secondo paragrafo di p. 23 il narratore ci dice che Burundún usava le parole per distruggere e per cancellare le cose positive. La parola immateriale ha come obiettivo altre cose immateriali ma che sono fondamentali per l'essere umano; tutte cose che per esistere necessitano della comunicazione verbale (la pace, l'amore, la giustizia). Non possedendo un linguaggio ed essendo quindi incapace di articolare un pensiero, Burundún risulta un personaggio vuoto. La sua bestializzazione è la chiave interpretativa di tutta la sua dittatura. Dal punto di vista del tiranno la parola genera tristezza e disuguaglianza, mentre per il narratore è il summa della capacità creativa dell'uomo e significa libertà ed eguaglianza. Zalamea usa gli schemi del grottesco per fare del dittatore una persona del tutto ridicola e addirittura repellente (tanto más amplio el sendero que perforaba ante su creciente y malsana obesidad y tanto más nauseabundo el que iba cegando a sus espaldas). A p. 24 la zoomorfizzazione del dittatore è completata e l'immagine del pappagallo è un paradigma della sua ridicolaggine (sembra una parodia degli uccelli considerati davvero sacri, l'aquila ed il condor). Lì il cronista usa eufemismi perché vuole prendere le dovute distanze dalla critica al dittatore, ma anche in questo modo il testo si rende parodico (parodico del testo ufficiale). Si può parlare di una schizofrenia lessicale in grado contemporaneamente di essere parte integrante del discorso ufficiale e profonda critica allo stesso. Con ironia e sarcasmo quindi il narratore fa una cronaca e intanto sviluppa una feroce critica. Nessuna versione della realtà può opporsi al dittatore e si può concludere che, nonostante il vuoto del suo pensiero, la sua parola raggiunge l'obiettivo di distruggere qualsiasi opposizione alla stupidità del regime. Dopo aver distrutto le cose che assumono valore solo attraverso la parola, il Burundún si occupa di distruggere la parola stessa (come si vede a p. 14, dove i sudditi comunicano solo attraverso grugniti e versi). Il gemido diviene forma di comunicazione e non è un caso che gli animali gemano quando si stanno avvicinando alla morte. A p. 20 questa situazione pseudo-comunicativa viene iperbolizzata nello sterminato elenco che conclude il capitolo. La prima cosa che si può dedurre dal testo è che mai Burundún è stato in grado di dominare il linguaggio, mentre esso era patrimonio comune del popolo. Il dittatore capisce che la parola è una minaccia e per questo la elimina. Zalamea altera le capacità espressive del dittatore proprio per questo motivo. A p. 24 c'è la descrizione precisa dell'afasia del dittatore e da qui si evince che l'autore ci sta proponendo ipotesi pseudo-scientifiche per creare uno strano effetto comico, riprendendo due tipici temi del grottesco: il motivo della bocca e la tecnica dell'enumerazione delle parti del corpo. La bocca aperta generalmente indica una relazione col mondo, evoca l'atto di mangiare (abbondanza) ma è anche atto sovversivo perché ricorda l'incontestabile bellezza di quel posto meraviglioso che è la vagina (quindi critica alla società patriarcale). L'immagine creata da Zalamea è grottesca perché al contrario la bocca di Burundún rimane chiusa e bloccata (ed è forse metafora della sua sterilità, della sua incapacità di amare, della sua miseria emotiva). Il deficit fisico del dittatore è quindi conseguenza di un handicap molto più profondo, quello della sua incapacità mentale ed intellettuale. All'inizio del testo infatti il Burundún è descritto come persona poco sveglia (tra le pp. 24 e 25 viene paragonato ad un ruminante, animale stupido per eccellenza) e quelle che il cronista descrive come idee geniali non hanno in realtà nulla di geniale. L'autore insiste così sui limiti del dittatore. Zalamea ci suggerisce che a Burundún non servono grandi capacità intellettuali per arrivare al suo trionfo. Il dittatore sfrutta i mezzi mediatici messi a disposizione dal Ministerio de la Propaganda e dai detti popolari per intensificare sempre più il suo potere. Burundún altera i significati di questi detti a suo piacimento per attaccare ed aggredire i suoi sudditi. Zalamea insiste su una caratteristica del dittatore, ovvero la capacità propria del potere di appropriarsi del sapere degli altri. Il sapere infatti non è mai neutro e gli uomini del sapere devono scegliere da che parte stare (e in questo caso tutti sono andati a servizio del dittatore). Burundún, a p. 25, dimostra di saper parlare come il popolo, ma conosce la sapienza popolare solo superficialmente; ciononostante questo gli basta per appropriarsene e modificarla a suo desiderio. Alle pp. 26 e 27 l'uso dei quindici proverbi si trasformano nei sostituti della parola articolata, ovvero nell'eliminazione del pensiero. Burundún suscita alienazione e reificazione nel suo popolo, ed è così che la sua riforma arriva a compiersi definitivamente. Il risultato della riforma è un vasto silencio derrumbante. Alla fine il popolo viene assimilato dalla propaganda del dittatore e, rimanendo senza le parole, rimane anche senz'anima. Gli uomini mantengono le loro capacità linguistiche ma non le usano più; a livello allegorico questo è l'elemento sostanziale del potere (di ogni potere), che da una parte viene esercitato tramite le parole e che dall'altra le teme. Una volta resosi conto che la totale abolizione della parola è impossibile, il dittatore comincia a sfruttare la violenza dell'esercito e della polizia. Nell'ambito del linguaggio rientra anche la risata del cavallo. Già abbiamo visto come esso rappresenti l'unico elemento incontrollabile e ribelle; ma la sua ribellione non è tanto nel gesto quanto nel suo linguaggio. L'animale è l'unico che ride in tutto il testo quindi, paradossalmente, l'unico ad avere caratteristiche umane. Questa scelta di Zalamea può apparire incomprensibile, ma non si tratta solo di una scelta retorica, bensì anche di una feroce critica alla disumanizzazione del potere. L'autore esprime attraverso il cavallo tutte le possibili opposizioni (politica, morale, fisica). L'autore concede spazio alla positività della risata. A p. 18 l'animale è nominato caballo de batalla ed è definito in base alla sua relazione con Burundún; subito dopo, con le varie esclamazioni, la descrizione diviene magnificatoria (come se il cronista celebrando il cavallo volesse celebrare anche il dittatore); tuttavia la perfezione del cavallo contrasta con l'aspetto del suo proprietario. È qui che si produce il contrappunto (cavallo = alto, positivo; Burundún = basso, negativo). Questa è la descrizione dell'emblema di un cavallo, elevando l'animale ad una dimensione simbolica in due aspetti che contrastano con il dittatore: la libertà e l'umanità. La sua umanizzazione è portata avanti grazie a termini e sintagmi che descrivono azioni tipiche dell'umano; inoltre il fragmento a p. 18 ci mostra le cose dal punto di vista del cavallo, mettendo così in rilievo i suoi desideri (in primis quello di libertà). Il cavallo si rende conto della bestialità del dittatore ed in questo modo i valori appaiono invertiti. L'animale pensa e ha sentimenti (cose che gli permettono di essere libero), ed inoltre la sua danza lo rende l'unico personaggio non costretto a seguire il ritmo del corteo. Anche il suono delle parole sembra voler dare il ritmo di una danza, mentre più avanti esse riprodurranno solo la parlata cacofonica del Burundún. Per Bachtin la risata era legata direttamente con l'idea di libertà e preannunciava un futuro ricco e abbondante. La risata del cavallo ha così un valore utopico in grado di immaginare un futuro senza dittatura e senza violenza; il cavallo si burla del funerale perché è il funerale del potere. A p. 19 la progressione stilistica e di contenuto aumenta le capacità di raziocinio del cavallo, ponendolo sempre più in contrasto col dittatore; la scrittura si fa ancor di più danza e immagine, dando forma ad un'icona che ne ricorda una che è già nell'immaginario collettivo: Guernica di Picasso. L'aspetto forse veramente rivoluzionario del cavallo è che danzando e ridendo apre la festa, il carnevale grottesco. Anche qui viene invertita l'immagine tipica del grottesco perché il vecchio (Burundún) altro non è che un cadavere, negando quindi la tradizionale ciclicità della vita. Si evidenzia ancora l'esistenza di due registri, quello ufficiale e quello carnevalesco (vedi anche le varie allusioni sessuali nella descrizione del cavallo). Gli elementi sessuali sono proprio quelli con cui Zalamea si appropria definitivamente del grottesco; lo stesso linguaggio si occupa di smentire il senso mitico di Burundún, aprendo così la possibilità di un futuro nuovo che neghi l'eterno presente rappresentato dalla dittatura. Leggendo il testo si comprende che gli aspetti ridicoli del dittatore non limitano la critica ad una condanna ideologica ma arrivano ad esprimere una condanna morale. È proprio la risata del cavallo, con la sua forza rigeneratrice ed utopica, ad avanzare questa condanna morale. La figura del cavallo è quindi l'elemento complementare al dittatore, il polo positivo che si contrappone a quello negativo. La complessità della struttura linguistica è data non solo dallo strumento formale, ma soprattutto ha funzione di contenuto in quanto il linguaggio si contrappone al vuoto del parlato del dittatore. Zalamea recupera così i valore libertario delle parole attraverso la sua forma più neutrale e grottesca: la risata. La logica emanazione della figura del dittatore è la violenza: sia la violenza sia il dittatore appaiono solo indirettamente nel testo, ed è interessante notare come l'uno definisca l'altra. Il dittatore non partecipa mai attivamente alla violenza, ma delega altri a farlo (il potere delega sempre), e per la precisione l'esercito e la polizia, le due braccia armate della polizia. Burundún, in quanto di origine borghese, si differenzia tanto da Facundo (che era un caudillo) quanto dal patriarca di García Márquez (militare); eppure la violenza del Burundún è senza precedenti, ha eccessi spettacolari e assume un valore simbolico in quanto fondata sulla paura. Il ruolo della violenza è analizzabile tramite gli strumenti umani usati dal dittatore. La tattica della tierra arrasada (vedi p. 12) è descritta prima con i tre rami dell'esercito, che sono il primo esempio di ricorso all'immaginario grottesco (zoomorfizzazione degli elementi). La comparazione tra zapadores e territoriales è significativa: le immagini proposte alle pp. 10 e 11 ci rimandano a campi semantici già usati nella descrizione di Burundún, ma in questo caso nessuna delle caratteristiche dei militari descritti appartiene all'essere umano (assenza di occhi, forma della testa). Eliminando l'umanità si eliminano anche l'identità e l'individualità. Le parti del corpo sono pura materia in decomposizione. I soldati vengono inoltre paragonati ai maiali e agli elefanti. Eppure Zalamea nega a questi personaggi caratteristiche ripugnanti, ché ad essere ripugnante deve essere solo il dittatore. L'autore colombiano applica l'essenza minima dei militari agli elementi tecnologici di distruzione, ed in particolare la maschera antigas occulta loro il volto umano. Anche gli aviatori usano mezzi ultra-tecnologici e per loro la descrizione fisica è del tutto assente, anche perché la peculiarità principale di questo corpo militare è l'invisibilità. Quando vengono descritte le tecnologie degli aviatori le immagini rimandano alle viscere ed ai genitali. Anche qui le costruzioni sono ossimoriche, descrivendo questi elementi con caratteristiche positive o viceversa. Nell'economia generale del testo questo ci prepara all'incontro con la violenza e si configura come prolessi della figura del dittatore. I militari non sono altro che emanazioni di Burundún e la sensazione che questi uomini non abbiano personalità crea una sorta di consustazione per cui i militari apparentemente agiscono secondo norme precise. La contrapposizione tra animali indifesi e militari è una metafora del trattamento riservato dal regime al popolo. Inoltre il popolo non viene citato se non per gli oppositori, che sappiamo essere eliminati violentemente, ma questa violenza non viene descritta. Zalamea lascia che sia il lettore ad immaginare il metodo. C'è costantemente una contrapposizione tra bene/vita e male/morte, ma paradossalmente la prima coppia è rappresentata dagli animali, la seconda dagli esseri umani. Zalamea non descrive mai la violenza: vi allude, la suggerisce, ma non la descrive; l'autore vuole eliminare l'aneddotica della narrazione, e così la violenza può solo essere immaginata. Il ruolo del dittatore si chiarisce a p. 12, dove ci viene detto che i morti non sono altro che il frutto delle debolezze e dei pruriti di Burundún. Con l'ecatombe di paperi creata dagli aviatori ci viene data una grande immagine della morte, e starà al lettore immaginare come essa sia simbolica della violenza che il regime ha perpetrato sugli esseri umani. Dietro all'esercito il narratore colloca la polizia; qui l'animalizzazione diviene bestializzazione, quindi un processo ancor più radicale. Quando Zalamea descrive l'odore dei poliziotti (p. 15) suscita la repulsione e la nausea del lettore, allegorizzando ancora una volta il loro valore morale. È così che l'autore fa capire il valore dell'intera istituzione della polizia senza descrivere alcuna loro azione. D'altronde, come insegna Foucault, la polizia agisce in maniera subdola e sotterranea e non ha bisogno di mostrare costantemente il suo potere. Noi sappiamo che gli occhi della polizia ci stanno osservando anche quando noi non li vediamo. D'altra parte Zalamea non parla mai di oppositori al regime, e in un ambito in cui manca l'opposizione attiva non si riesce a capire perché il potere eserciti tanta violenza; probabilmente secondo il dittatore ogni cittadino è un potenziale nemico e per questo la sua opposizione va prevenuta con la forza. Eliminando l'aneddoto l'autore colombiano ci porta al nucleo del problema: non esiste una causa concreta perché il regime generi la violenza, ma esso della violenza si ciba e non può farne a meno. La grande arma del dittatore è la paura, con la quale garantisce la sua opera di sterminio (fisico e mentale). Tra le pp. 31 e 32 si intende la dimensione della violenza generata proprio dalla paura. L'autore tratta il motivo della paura con insistenza in modo da comprendere i suoi meccanismi profondi. La violenza di Burundún è l'essenza stessa del potere, ed il dittatore non è in grado di rigenerarsi senza di essa. Il potere non può cercare di evolversi perché erige la sua forza sulla preservazione dello status quo e sfrutta proprio la paura per portare avanti questa funzione. Il potere convince i sudditi che questi vivano nel migliore dei mondi possibili e lo fa attraverso la paura. Burundún raggiunge la complicità dei suoi sudditi non tanto attraverso la violenza fisica, bensì attraverso una violenza molto più sottile: il potere disciplinario, come descritto dall'onnipresente Foucault, è uno strumento per il controllo dell'anima. Per Foucault il concetto di anima riassume l'intelligenza, i sentimenti, la capacità critica e tutti quegli elementi che ci rendono umani. Il corpo del cittadino viene così violato senza che esso subisca alcuna azione fisica. Foucault sottolinea il fatto che il suddito non è l'oggetto finale, bensì è lo strumento per raggiungere il controllo dell'anima. Il dittatore è allegoria di tutti i dittatori del XX secolo, cioè di quel periodo che Foucault aveva definito epoca disciplinaria, ed è interessante notare che Zalamea si riferiva al continente latino-americano affollato di dittature, Foucault alle democrazie europee, eppure questa caratteristica del potere non cambia. La reinterpretazione del linguaggio dato dalla continua ripetizione dei modi di dire costituisce un discorso onnipresente ma quasi impercettibile che rende i cittadini dei soggetti obbedienti (altra espressione di Foucault). La grande maggioranza del popolo arriva a credere che il silenzio sia una scelta cosciente dei cittadini. Burundún giustifica l'eliminazione delle differenze individuali, e lo fa cercando la felicità dei propri sudditi, o meglio per far credere loro di essere felici. Altro meccanismo chiave del potere è il controllo del tempo e anche qui ci si riallaccia a Foucault; il modello del Panopticon può essere applicato a qualsiasi istituzione della società disciplinaria, trasformando anche i “normali” cittadini in uomini con sentimenti previ. Zalamea paragona la chiesa all'esercito e alla polizia (p. 17), chiarendo tanto il fatto che la religione impone lo stesso tipo di controllo quanto il fatto che anche i prevosti sono solo uno strumento del potere. A differenza del passato, le gerarchie religiose non esercitano più direttamente la violenza, bensì sono collusi col potere e gli garantiscono un tacito accordo. La microfisica del potere ha bisogno anche di norme, ed il mondo di Burundún funziona proprio in questo modo. L'affermazione che rappresenta tutto quello che il dittatore è agli occhi di Zalamea è parto de cadáveres, ovvero un creatore di mattanze continue. A p. 31 l'autore dice: a los financistas no tuvo que manejarlos: lo manejaban ellos. (¡Y el Burundún-Burundá creía no saberlo!), facendo intendere che forse anche quello che sembra il burattinaio è in realtà un burattino nelle mani di qualcun altro. Questa è la vera origine del Burundún (ed in generale di tutte le dittature latino-americane), ovvero la presa del potere delle élite economiche. Il vero problema non sono gli zapadores, non sono i territoriales, non gli aviadores, ma sono proprio i componenti di questa élite economica da cui tutto deriva. L'importante è che il popolo non si accorga di questo sdoppiamento del potere, della presenza dei financistas dietro al dittatore, perché il Burundún deve essere l'alfa e l'omega, deve essere una sorta di divinità terrena. Ma quando il dittatore non serve più queste eminenze grigie che vi stanno dietro non devono far altro che sostituirlo o trasformarlo in capro espiatorio (qualcuno ha detto Gheddafi?) in modo da poter conservare il potere di quelle stesse eminenze. A p. 38 questi vengono perfettamente descritti: Pero éstos eran apena la vanguardia de una tropa más fogueada y ladina: las eminencias detrás del trono, el diablo tras la cruz, los empresarios auténticos de la gran titeretada burunduniana. Con sus glabros rostros, sus ojos ingenuos, sus recias mandíbulas y sus trajes de corte impecable, eran el arquetipo del nuevo “uomo universale”. Osservando questo frammento nel dettaglio notiamo che le descrizioni fisiche ci portano a persone altamente civilizzate (al contrario dei poliziotti). Ma questa eleganza e bellezza è semplicemente una maschera, e non una maschera qualsiasi, bensì la più pericolosa di tutte le maschere. Subito dopo, difatti, la descrizione delle loro azioni si fa arma potentissima; qui non c'è più né ironia né satira, ma una descrizione indignata che lancia un grido che assomiglia a quello di dolore lanciato da Picasso in Guernica e da Munch nell'Urlo. Il popolo viene trattato, a p. 39, come un maiale, ché il maiale è l'unico animale di cui non si butta via niente. Anche qui l'aspetto comico è tralasciato per dare spazio all'orrore della carneficina. L'ambiguità del teso viene momentaneamente messa da parte in favore di una critica radicale, e in questo clima Burundún non è nulla più né nulla meno che uno strumento di morte. Il libro però non è privo di speranza, anzi ci permette di vedere anche l'altra faccia della medaglia grazie alle risate del cavallo. La metamorfosi del Burundún in pappagallo è ciò che lascia i suoi sudditi senza riferimenti sul da farsi e che non permette che il meccanismo del potere continui a funzionare. Alla fine del racconto la violenza, garanzia della sopravvivenza del regime, si rivela inutile. L'esercito reagisce come sempre, cioè sparando ad minchiam, ma stavolta senza riuscire a calmare il caos della folla. Non muore nessuno nella scena, non c'è spargimento di sangue; la dittatura ha perso il suo potere, ha ido de la nada a la nada, come ci dice l'autore all'inizio del testo. Il funerale diventa una festa carnevalesca in cui tutto ciò che era stato cancellato dal regime può finalmente tornare a galla.

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