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Charles Dickens

Tempi difficili

Voto medio della comunità Lìberos
Recensioni (1)
Inserito il 30-01-2014 da Alberto Rossi
Aggiornato il 30-01-2014 da Alberto Rossi
Disponibile in 1 libreria
Inserito il 30-01-2014 da Alberto Rossi
Aggiornato il 30-01-2014 da Alberto Rossi
Disponibile in 1 libreria

Inventore del romanzo sociale, Dickens vi ha fuso e sviluppato le due tradizioni della narrativa inglese: la tradizione picaresca di Defoe e Fielding e quella sentimentale. Tempi difficili è il romanzo in cui più compiutamente si esprime la sua avversione all'ideologia utilitaristica, inevitabile conseguenza del processo di industrializzazione che caratterizza l'Inghilterra di quegli anni. Ma più che indagare le cause, Dickens rappresenta gli effetti sociali che lo sfruttamento produce, cioè la falsificazione dei rapporti umani. Il proletariato, per elevarsi alla condizione della borghesia, ne assume le caratteristiche di ipocrisia e di durezza.

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Alberto Rossi

Dickens era portatore di una morale repellente e tediosa; Flaubert era talmente ossessionato dal combattere gli stereotipi e i luoghi comuni da divenire lui stesso un luogo comune; Balzac si dilungava in descrizioni che a volte raggiungevano la summa dell'irritazione; Baudelaire era più innovativo che effettivamente bravo; Tolstoj era così perfetto nell'intrecciare i rapporti tra le sue decine di personaggi da far sì che la metà di essi sembrassero finti; al contrario, Dostoevskij era così bravo nel rendere vivi i suoi, di personaggi, che molto spesso trascurava la sua scrittura, rendendola rozza; Manzoni riuscì nel romanzo storico ma fallì miseramente nel renderlo un'allegoria; Turgenev si preoccupava più di trasmettere un'ideologia che di scrivere un buon romanzo; Poe è stato talmente introiettato e rivisitato che oggi appare scontato; Zola era un conservatore mascherato da progressista estremamente ruffiano. E mi limito all'Ottocento. Ci si sente un novello Hans Schnier a scrivere quel che ho scritto, ma sia detto per inciso, a parte Dickens, che non ho mai amato molto (anche se ammetto che alcune peculiarità del suo stile mi hanno sempre colpito assai, la capacità di descrizione degli ambienti in particolare), a parte Dickens, dicevo, adoro tutte le persone citate sin qui (Hans Schnier compreso, perché no?). Solo che ultimamente mi è capitato più volte di dover dibattere sui classici e quindi volevo mettere il mio personalissimo punto sulla questione. Prendere un classico per opera definitiva, per monumento anziché documento, significa non poter scrutare dentro a quel classico, ché altri ci hanno già pensato per noi. Dobbiamo accettare supinamente l'imposizione di un canone? A quel punto, tanto vale non leggerli neanche, i classici.

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Editore: Garzanti

Lingua: (DATO NON PRESENTE)

Numero di pagine: 308

Formato: (DATO NON PRESENTE)

ISBN-10: 8811361982

ISBN-13: 9788811361985

Data di pubblicazione: 2003

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Inventore del romanzo sociale, Dickens vi ha fuso e sviluppato le due tradizioni della narrativa inglese: la tradizione picaresca di Defoe e Fielding e quella sentimentale. Tempi difficili è il romanzo in cui più compiutamente si esprime la sua avversione all'ideologia utilitaristica, inevitabile conseguenza del processo di industrializzazione che caratterizza l'Inghilterra di quegli anni. Ma più che indagare le cause, Dickens rappresenta gli effetti sociali che lo sfruttamento produce, cioè la falsificazione dei rapporti umani. Il proletariato, per elevarsi alla condizione della borghesia, ne assume le caratteristiche di ipocrisia e di durezza.

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Dickens era portatore di una morale repellente e tediosa; Flaubert era talmente ossessionato dal combattere gli stereotipi e i luoghi comuni da divenire lui stesso un luogo comune; Balzac si dilungava in descrizioni che a volte raggiungevano la summa dell'irritazione; Baudelaire era più innovativo che effettivamente bravo; Tolstoj era così perfetto nell'intrecciare i rapporti tra le sue decine di personaggi da far sì che la metà di essi sembrassero finti; al contrario, Dostoevskij era così bravo nel rendere vivi i suoi, di personaggi, che molto spesso trascurava la sua scrittura, rendendola rozza; Manzoni riuscì nel romanzo storico ma fallì miseramente nel renderlo un'allegoria; Turgenev si preoccupava più di trasmettere un'ideologia che di scrivere un buon romanzo; Poe è stato talmente introiettato e rivisitato che oggi appare scontato; Zola era un conservatore mascherato da progressista estremamente ruffiano. E mi limito all'Ottocento. Ci si sente un novello Hans Schnier a scrivere quel che ho scritto, ma sia detto per inciso, a parte Dickens, che non ho mai amato molto (anche se ammetto che alcune peculiarità del suo stile mi hanno sempre colpito assai, la capacità di descrizione degli ambienti in particolare), a parte Dickens, dicevo, adoro tutte le persone citate sin qui (Hans Schnier compreso, perché no?). Solo che ultimamente mi è capitato più volte di dover dibattere sui classici e quindi volevo mettere il mio personalissimo punto sulla questione. Prendere un classico per opera definitiva, per monumento anziché documento, significa non poter scrutare dentro a quel classico, ché altri ci hanno già pensato per noi. Dobbiamo accettare supinamente l'imposizione di un canone? A quel punto, tanto vale non leggerli neanche, i classici.

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