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Antonio Moresco

Gli esordi

Voto medio della comunità Lìberos
Recensioni (1)
Inserito il 30-01-2014 da Alberto Rossi
Aggiornato il 30-01-2014 da Alberto Rossi
Disponibile in 1 libreria
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Alberto Rossi

Cos'è questo che mi ritrovo fra le mani? Un romanzo, dovrebbe essere, sì, c'è scritto anche sulla copertina, là, in piccolo, sotto la scritta “gli esordi”. Non lo so, però, se è vero che questo è un romanzo, sono troppo inetto per capirlo, ma ho capito che per me, questa cosa, è stata un gabbia, una gabbia che mi ha imprigionato dalla prima pagina e che non ha smesso di farlo all'ultima, le sue sbarre continuano ad essere lì e non mi lasciano fuggire. Non che io abbia alcuna intenzione di fuggire, intendiamoci. Io non ho mai letto nulla del genere, questo è pacifico, ma proverò comunque a darne una minima spiegazione, un miserucolo tentativo di misurazione dell'incommensurabile. La storia è divisa in tre parti, tra di loro diversissime, eppure completamente identiche. L'io narrante è il protagonista del racconto ed è prima un seminarista destinato a diventar prete, poi un attivista politico destinato a diventare terrorista e infine un aspirante scrittore destinato a diventare... cosa? Uno scrittore vero e proprio? Un cadavere? Difficile dirlo. I tre sì che dovrebbero lasciare spazio al raggiungimento della sua vocazione, quale che sia di volta in volta, sono comunque dei sì relativi nei primi due casi, considerato il cambiamento che poi avviene nella sua biografia. Ma perché questo cambiamento? Cosa avviene che non gli permette di diventare né prete né terrorista. È qui che il genio di Moresco interviene nella più subdola delle maniere, non scoprendo nulla di quello che succede nel mezzo. Noi semplicemente non lo sappiamo, né possiamo saperlo. Così come non sappiamo come andrà a finire con la terza vocazione, data l'interruzione della storia proprio sul terzo sì; visti gli “insuccessi” precedenti il lettore potrebbe anche figurarsi un futuro a sua volta diversissimo ed incoerente con quel sì. Sono questi gli esordi del titolo, delle premesse ad una storia che non ci viene raccontata. La trama sin qui, ma la trama, così affascinante, è solo uno dei tanti tasselli che rendono così formidabile questa cosa indescrivibile. Perché poi c'è il modo unico di dipingere le scene, in un realismo debordante che viene fatto improvvisamente scemare; ogni volta quanto sembra perfettamente verosimile si autodistrugge con dettagli tanto insignificanti quanto impossibili. Moresco non cancella il realismo (ci avevano già pensato un buon secolo prima di lui), lo sospende semmai, sospende la realtà rendendola un fatto assurdo eppure inevitabile. E poi ci sono le riflessioni: riflessioni sottili, a volte solo accennate, ma che comprendono tutto (la religione, la filosofia, la storia, la letteratura, la politica, l'umanità); altre volte sono invece le riflessioni traumatiche, quelle che cambiano prepotentemente il punto di vista, quelle che ti fanno alzare gli occhi dal libro per guardare nel vuoto minuti interi, tentando di riflettere sulle riflessioni. Questa, per esempio, è pura meraviglia: “Interi piani di spazio stavano andando alla deriva, smottavano macinando firmamenti, mentre Dio si trovava in preda all'angoscia dell'illimite. 'Un tempo'... mi pareva stesse silenziosamente vociando nello spazio 'ero una liberissima, magmatica poltiglia che imperversava nell'increato intatto. Cos'è accaduto alla mia mente? Pensiero mai pensato eppure deflagrato. Il limite è stato sfondato, rovesciato, la prima volta, quando ho inviato sulla terra il mio figliolo. Vorrà dire che questa volta mi incarnerò in un bacillo. E potrò dirmi appagato se dopo un certo numero di anni, attraverso una serie di reazioni a catena che qualcuno potrebbe calcolare incalcolabili, così al termine di uno stesso evo che a qualcuno potrebbe persino apparire sigillo ciclico, eppure senz'altro scopo, senza alcuna pretesa di redenzione, sarò infine riuscito a suscitare in un corpo umano in illusorio movimento nello spazio un brontolio intestinale perfettamente udibile, in una notte qualunque eppure irripetibile, nel momento stesso in cui qualcun altro si ritroverà a incrociare per caso sopra lo stesso marciapiede... Allora potrò veramente dire che la mia opera è compiuta!' (pp. 39-40) E poi c'è il linguaggio, così colloquiale ma sempre proiettato oltre al linguaggio stesso, come una nuova definizione di linguaggio. E ci sono i linguaggi nei linguaggi, specie nella prima parte (non a caso intitolata al silenzio). Qui il linguaggio viene di volta in volta sostituito da micro-linguaggi del silenzio, delle specie di limbo (o limbi? cos'è il plurale di limbo?) che non sono né linguaggio né silenzio. E poi ci sono le turpi descrizioni del trattamento riservato agli animali (nella prima parte) e ad agli uomini (nella seconda). Che sia per necessità o per svago che viene inflitto dolore, queste descrizioni sono stoccate al cuore di rarissima e finissima precisione. Fanno male. E poi c'è il tempo, sfigurato, velocissimo e lentissimo, con mesi che passano senza che ce ne si renda conto e altri che non finiscono mai, e gli sbalzi, e gli avanti-indietro, e le persone che invecchiano nel giro di attimi e quelle che rimangono identiche per anni. Ed il continuo evidenziare il passaggio delle stagioni, che è invero poco importante se rapportato ad una dimensione temporale che pare non curarsene affatto. E poi c'è l'estrema girandola di personaggi, presentati di volta in volta e che sembrano non voler finire mai; a volte non sono altro che mere comparse, eppure tutti, nessuno escluso, perfettamente caratterizzati, con picchi geniali nel Gatto, nel cieco, in Sonnolenza, nel Gagà e nella Pesca. E poi, e poi c'è il metatesto, il testo che ti spiega il testo o, meglio, ti spiega che il testo non può, non deve essere spiegato. Nella terza parte questo ricorso alla metatestualità è palese: “«Ma ci si può ancora gettare allo sbaraglio fino a tal punto?» riprese a dire un istante dopo. «'Non erano questi i patti!' si metteranno tutti quanti a gridare. Gettare all'improvviso questa cosa sul banco, mentre se ne stavano tutti quanti per rincasare, ed erano lì con le carte allentate, l'occhio addormentato... Non ci sono più neppure i passaggi. E poi come uscirne? 'Chè cos'è questa roba, d'un tratto?' si metteranno a sbraitare. 'Ci pareva assodato che le parole dovessero stare dentro se stesse, al proprio posto!'» […] «'Le parole devono fare ciccia!' mi diranno indignati. 'Devono fare linguaggio!'»” (p. 582) Nella prima parte, invece, in linea con l'idea del silenzio che la descrive, la metatestualità è nascosta e sembra parlare d'altro (ed io questo uso più arguto lo preferisco): “A me pareva di non parlare, eppure capitava che gli altri si comportassero come se lo facessi. […] 'Fino a che punto la capacità di tacere si può perfezionare?' mi chiedevo. 'Non più parlare e neppure essere parlati, ma scorrere semplicemente altrove, ma in un altrove che non si possa neanche più chiamare altrove, e lasciare dietro di sé un nulla che a qualcuno possa apparire come la coda della lucertola che fugge...'” (pp. 190-191) E poi c'è la feroce satira dell'editoria, quella che mette in piedi farse internazionali come il Pulitzer, che pompa boiate come “Middlesex” e ci fa credere che siano veramente prodotti dell'innovazione culturale quando in realtà sono libercoli retrogradi di poco conto (per non parlare di farse di casa nostra come lo Strega, di cui non devo neanche citare esempi, visto che da vent'anni a questa parte vincono solo operette ridicole), e intanto rigettano le vere opere rivoluzionarie, come questa cosa che sto cercando di recensire (che dovette aspettare otto anni per essere pubblicata). Come qui: “Passano la vita a fare catenaccio, lo fanno ormai quasi senza neanche volerlo, senza più saperlo. Scagliano la loro immagine fuori di sé, la fanno andare attraverso lo spazio, ritornare, se la scagliano l'uno attraverso l'altro, non si capisce più chi sono gli scagliatori, gli scagliati, cercano di progettarsi persino la posterità, stabiliscono taciti accordi l'uno con l'altro, le letterature, le storie, le enciclopedie... hanno fiuto solo per quelli che bisogna tenere a tutti i costi a distanza, vivono nel terrore che dall'orda degli esclusi venga fuori un giorno o l'altro qualcuno... che riesca a balzare fuori da un asterisco, per qualche contrattempo epocale, che li riduca a loro volta e per sempre ad asterisco...” (p. 583) E poi ci sono le sottigliezze, quelle cose di cui ti rendi conto solo molto in là con la narrazione, come il fatto che il protagonista dorme quasi sempre, nelle prime due parti, entro confini istituzionalizzati (che siano il seminario o le sedi di partito). Egli non riesce a trovare una propria vita al di là di quella offertagli (impostagli?) dagli altri, a sminuire quella che appare come un'esistenza estremamente libera. Ma questo è solo uno degli esempi di un uso finissimo della macchina narrativa, ce ne sono tanti altri, e chissà quanti me ne sono sfuggiti. E poi ci sono io, che sono un poveraccio e che per questo non sono ancora riuscito ad interiorizzare questa cosa del tutto, e forse mai ci riuscirò. E poi, e poi, e poi. E poi c'è tutto il resto, che non sono in grado di dire.

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Editore: A. Mondadori

Lingua: (DATO NON PRESENTE)

Numero di pagine: 673

Formato: (DATO NON PRESENTE)

ISBN-10: 8804601302

ISBN-13: 9788804601302

Data di pubblicazione: 2011

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Uno scrittore vero e proprio? Un cadavere? Difficile dirlo. I tre sì che dovrebbero lasciare spazio al raggiungimento della sua vocazione, quale che sia di volta in volta, sono comunque dei sì relativi nei primi due casi, considerato il cambiamento che poi avviene nella sua biografia. Ma perché questo cambiamento? Cosa avviene che non gli permette di diventare né prete né terrorista. È qui che il genio di Moresco interviene nella più subdola delle maniere, non scoprendo nulla di quello che succede nel mezzo. Noi semplicemente non lo sappiamo, né possiamo saperlo. Così come non sappiamo come andrà a finire con la terza vocazione, data l'interruzione della storia proprio sul terzo sì; visti gli “insuccessi” precedenti il lettore potrebbe anche figurarsi un futuro a sua volta diversissimo ed incoerente con quel sì. Sono questi gli esordi del titolo, delle premesse ad una storia che non ci viene raccontata. La trama sin qui, ma la trama, così affascinante, è solo uno dei tanti tasselli che rendono così formidabile questa cosa indescrivibile. Perché poi c'è il modo unico di dipingere le scene, in un realismo debordante che viene fatto improvvisamente scemare; ogni volta quanto sembra perfettamente verosimile si autodistrugge con dettagli tanto insignificanti quanto impossibili. Moresco non cancella il realismo (ci avevano già pensato un buon secolo prima di lui), lo sospende semmai, sospende la realtà rendendola un fatto assurdo eppure inevitabile. E poi ci sono le riflessioni: riflessioni sottili, a volte solo accennate, ma che comprendono tutto (la religione, la filosofia, la storia, la letteratura, la politica, l'umanità); altre volte sono invece le riflessioni traumatiche, quelle che cambiano prepotentemente il punto di vista, quelle che ti fanno alzare gli occhi dal libro per guardare nel vuoto minuti interi, tentando di riflettere sulle riflessioni. Questa, per esempio, è pura meraviglia: “Interi piani di spazio stavano andando alla deriva, smottavano macinando firmamenti, mentre Dio si trovava in preda all'angoscia dell'illimite. 'Un tempo'... mi pareva stesse silenziosamente vociando nello spazio 'ero una liberissima, magmatica poltiglia che imperversava nell'increato intatto. Cos'è accaduto alla mia mente? Pensiero mai pensato eppure deflagrato. Il limite è stato sfondato, rovesciato, la prima volta, quando ho inviato sulla terra il mio figliolo. Vorrà dire che questa volta mi incarnerò in un bacillo. E potrò dirmi appagato se dopo un certo numero di anni, attraverso una serie di reazioni a catena che qualcuno potrebbe calcolare incalcolabili, così al termine di uno stesso evo che a qualcuno potrebbe persino apparire sigillo ciclico, eppure senz'altro scopo, senza alcuna pretesa di redenzione, sarò infine riuscito a suscitare in un corpo umano in illusorio movimento nello spazio un brontolio intestinale perfettamente udibile, in una notte qualunque eppure irripetibile, nel momento stesso in cui qualcun altro si ritroverà a incrociare per caso sopra lo stesso marciapiede... Allora potrò veramente dire che la mia opera è compiuta!' (pp. 39-40) E poi c'è il linguaggio, così colloquiale ma sempre proiettato oltre al linguaggio stesso, come una nuova definizione di linguaggio. E ci sono i linguaggi nei linguaggi, specie nella prima parte (non a caso intitolata al silenzio). Qui il linguaggio viene di volta in volta sostituito da micro-linguaggi del silenzio, delle specie di limbo (o limbi? cos'è il plurale di limbo?) che non sono né linguaggio né silenzio. E poi ci sono le turpi descrizioni del trattamento riservato agli animali (nella prima parte) e ad agli uomini (nella seconda). Che sia per necessità o per svago che viene inflitto dolore, queste descrizioni sono stoccate al cuore di rarissima e finissima precisione. Fanno male. E poi c'è il tempo, sfigurato, velocissimo e lentissimo, con mesi che passano senza che ce ne si renda conto e altri che non finiscono mai, e gli sbalzi, e gli avanti-indietro, e le persone che invecchiano nel giro di attimi e quelle che rimangono identiche per anni. Ed il continuo evidenziare il passaggio delle stagioni, che è invero poco importante se rapportato ad una dimensione temporale che pare non curarsene affatto. E poi c'è l'estrema girandola di personaggi, presentati di volta in volta e che sembrano non voler finire mai; a volte non sono altro che mere comparse, eppure tutti, nessuno escluso, perfettamente caratterizzati, con picchi geniali nel Gatto, nel cieco, in Sonnolenza, nel Gagà e nella Pesca. E poi, e poi c'è il metatesto, il testo che ti spiega il testo o, meglio, ti spiega che il testo non può, non deve essere spiegato. Nella terza parte questo ricorso alla metatestualità è palese: “«Ma ci si può ancora gettare allo sbaraglio fino a tal punto?» riprese a dire un istante dopo. «'Non erano questi i patti!' si metteranno tutti quanti a gridare. Gettare all'improvviso questa cosa sul banco, mentre se ne stavano tutti quanti per rincasare, ed erano lì con le carte allentate, l'occhio addormentato... Non ci sono più neppure i passaggi. E poi come uscirne? 'Chè cos'è questa roba, d'un tratto?' si metteranno a sbraitare. 'Ci pareva assodato che le parole dovessero stare dentro se stesse, al proprio posto!'» […] «'Le parole devono fare ciccia!' mi diranno indignati. 'Devono fare linguaggio!'»” (p. 582) Nella prima parte, invece, in linea con l'idea del silenzio che la descrive, la metatestualità è nascosta e sembra parlare d'altro (ed io questo uso più arguto lo preferisco): “A me pareva di non parlare, eppure capitava che gli altri si comportassero come se lo facessi. […] 'Fino a che punto la capacità di tacere si può perfezionare?' mi chiedevo. 'Non più parlare e neppure essere parlati, ma scorrere semplicemente altrove, ma in un altrove che non si possa neanche più chiamare altrove, e lasciare dietro di sé un nulla che a qualcuno possa apparire come la coda della lucertola che fugge...'” (pp. 190-191) E poi c'è la feroce satira dell'editoria, quella che mette in piedi farse internazionali come il Pulitzer, che pompa boiate come “Middlesex” e ci fa credere che siano veramente prodotti dell'innovazione culturale quando in realtà sono libercoli retrogradi di poco conto (per non parlare di farse di casa nostra come lo Strega, di cui non devo neanche citare esempi, visto che da vent'anni a questa parte vincono solo operette ridicole), e intanto rigettano le vere opere rivoluzionarie, come questa cosa che sto cercando di recensire (che dovette aspettare otto anni per essere pubblicata). Come qui: “Passano la vita a fare catenaccio, lo fanno ormai quasi senza neanche volerlo, senza più saperlo. Scagliano la loro immagine fuori di sé, la fanno andare attraverso lo spazio, ritornare, se la scagliano l'uno attraverso l'altro, non si capisce più chi sono gli scagliatori, gli scagliati, cercano di progettarsi persino la posterità, stabiliscono taciti accordi l'uno con l'altro, le letterature, le storie, le enciclopedie... hanno fiuto solo per quelli che bisogna tenere a tutti i costi a distanza, vivono nel terrore che dall'orda degli esclusi venga fuori un giorno o l'altro qualcuno... che riesca a balzare fuori da un asterisco, per qualche contrattempo epocale, che li riduca a loro volta e per sempre ad asterisco...” (p. 583) E poi ci sono le sottigliezze, quelle cose di cui ti rendi conto solo molto in là con la narrazione, come il fatto che il protagonista dorme quasi sempre, nelle prime due parti, entro confini istituzionalizzati (che siano il seminario o le sedi di partito). Egli non riesce a trovare una propria vita al di là di quella offertagli (impostagli?) dagli altri, a sminuire quella che appare come un'esistenza estremamente libera. Ma questo è solo uno degli esempi di un uso finissimo della macchina narrativa, ce ne sono tanti altri, e chissà quanti me ne sono sfuggiti. E poi ci sono io, che sono un poveraccio e che per questo non sono ancora riuscito ad interiorizzare questa cosa del tutto, e forse mai ci riuscirò. E poi, e poi, e poi. E poi c'è tutto il resto, che non sono in grado di dire.

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