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E intanto, mentre non c'eri...

Michela L.


Huckelberry Finn
Oltre un mese fa, 28-08-2024
I nomi epiceni
Amélie Nothomb

"Non gli passa. È difficile che la collera passi. Esiste il verbo incollerirsi, far montare dentro di sé la collera, ma non il suo contrario. P [...]

Michela L.


Huckelberry Finn
Oltre un mese fa, 05-04-2024
La zona d'interesse
Martin Amis

"pensavo, come ha potuto «un sonnolento paese di poeti e sognatori», e la più colta e raffinata nazione che il mondo avesse mai visto, come ha [...]

Michela L.


Huckelberry Finn
Oltre un mese fa, 05-02-2024
Il libro delle sorelle
Amélie Nothomb

"Tu che adori la letteratura non hai voglia di scrivere? - Adoro anche il vino, ma non per questo ho voglia di coltivare la vigna."

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Susan Abulhawa

Ogni mattina a Jenin

Voto medio della comunità Lìberos
Recensioni (1)
Inserito il 28-09-2016 da Laura
Aggiornato il 24-01-2022 da Girasole
Disponibile in 2 librerie
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Aggiornato il 24-01-2022 da Girasole
Disponibile in 2 librerie

Attraverso la voce di Amal, la brillante nipotina del patriarca della famiglia Abulheja, viviamo l'abbandono della casa dei suoi antenati di �Ain Hod, nel 1948, per il campo profughi di Jenin. Assistiamo alle drammatiche vicende dei suoi due fratelli, costretti a diventare nemici: il primo rapito da neonato e diventato un soldato israeliano, il secondo che invece consacra la sua esistenza alla causa palestinese. E, in parallelo, si snoda la storia di Amal: l'infanzia, gli amori, i lutti, il matrimonio, la maternità e, infine, il suo bisogno di condividere questa storia con la figlia, per preservare il suo più grande amore.
La storia della Palestina, intrecciata alle vicende di una famiglia che diventa simbolo delle famiglie palestinesi, si snoda nell'arco di quasi sessant'anni, attraverso gli episodi che hanno segnato la nascita di uno stato e la fine di un altro. In primo piano c'è la tragedia dell'esilio, la guerra, la perdita della terra e degli affetti, la vita nei campi profughi, come rifugiati, condannati a sopravvivere in attesa di una svolta. L'autrice non cerca i colpevoli tra gli israeliani, che anzi descrive con pietà, rispetto e consapevolezza, racconta invece la storia di tante vittime capaci di andare avanti solo grazie all'amore.

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Laura

La Storia ce lo insegna: chi è stato vittima, diventa carnefice. Non posso affermare se questa sia legge assoluta, praticamente matematica, ma in genere, da un capo all’altro del mondo, in ambito politico e religioso, appena ne ha avuto occasione l’oppresso di un tempo finisce per opprimere, il perseguitato per perseguitare e via dicendo. Per gli ebrei così è stato e in Palestina, “loro” terra promessa, ne hanno dato ampia e disgustosa prova. Mi domando con che cuore e quale coscienza coloro che vissero sulla propria pelle discriminazioni, persecuzioni e la tragedia della Shoah, abbiano potuto uccidere e torturare, così pure i loro figli e nipoti; lo hanno fatto a partire da quel triste 1948, forse pensando che la pietà fosse un lusso che non si potevano permettere. È strano: per secoli, nell’umiliazione della diaspora, gli ebrei hanno chinato la testa dinnanzi ai sopraffattori di turno, per poi rialzarla, e nel modo più brutale, con chi non c’entrava niente e così, a causa dell’antisemitismo che la nostra Europa ha covato in seno fino all’esplodere del bubbone nazista, gli arabi di Palestina hanno infine pagato il prezzo dell’Olocausto. È anche colpa nostra, quanto è accaduto laggiù, colpa del nostro “appeasement”, dell’ipocrisia cronica delle nostre diplomazie. C’è tutto questo in “Ogni mattina a Jenin” che, già pubblicato in Italia col titolo “Nel segno di David”, non è soltanto un romanzo: è la storia di una famiglia e di un popolo intero cacciato dalle sue case di solida pietra, dai suoi villaggi fioriti e dalla terra dove gli antenati, secoli addietro, avevano piantato ulivi e prospere radici di vita. È la storia di una catastrofe che non è mai terminata (“an-nakba”, la chiamano in arabo), di una diaspora nuova passando attraverso il fango dei vicoli del campo profughi di Jenin, la guerra dei sei giorni, l’intifada e il macello - nel senso proprio del termine - di Sabra e Shatila alla periferia della martoriata Beirut. La storia di crimini contro l’umanità che, purtroppo, resteranno impuniti! Nemmeno quello sporco assassino di Ariel Sharon, che pur ha finito i suoi giorni ridotto come un vegetale, ha pagato abbastanza per ciò che ha fatto. Una scrittura intensa, struggente; il dolore affiora tra le righe, pure la rabbia, quella che solo un popolo calpestato e derubato della terra può sentire. Mentre leggevo i capitoli più strazianti, mi tornavano in mente le parole di Primo Levi - un ebreo, non a caso! - in “Se questo è un uomo” (“Voi che vivete sicuri / Nelle vostre tiepide case […] / Considerate se questo è un uomo / Che lavora nel fango / Che non conosce pace […] / Vi comando queste parole / Scolpitele nel vostro cuore […] / Ripetetele ai vostri figli.”); e, ancor di più, quelle di Mahmud Darwish, il grande, grandissimo poeta della resistenza palestinese: “da voi la spada - e da noi il nostro sangue da voi l'acciaio e il fuoco - e da noi la nostra carne da voi un altro carro armato - e da noi una pietra da voi una bomba lacrimogena - e da noi la pioggia [...] Andatevene dalla nostra terra, dal nostro grano dal nostro mare [...] Andatevene...” (da “Passanti tra parole fugaci”) Se gli ebrei avessero almeno scelto di percorrere la strada della condivisione, sarebbe stato diverso; del resto, gli arabi non li avevano mica ributtati a mare allorché essi avevano iniziato ad approdare a piccole dosi tra fine Ottocento e inizio Novecento. Invece, vogliono tutto. E tutto, presto o tardi, si prenderanno, dal momento che la Cisgiordania (entrando dall’Allenby, basta trattenersi nei Territori anche solo un paio d’ore per capire che aria tira) è sotto stretto controllo militare israeliano, con i soldati che fanno il buono e il cattivo tempo ai check points, le onnipresenti torrette di controllo, la vergogna del muro che serpeggia velenoso nel cuore della gente, gli insediamenti dei coloni, covi di puro sionismo, violenza e intolleranza, dove gli abitanti, nella quiete dei loro rigogliosi giardini (mentre, spesso, i bambini palestinesi non hanno nemmeno l’acqua nello baracche in cui vivono), continuano a ripetere deliranti discorsi secondo cui non c’è nulla da restituire perché quella è tutta terra di Israele... La Storia, seppure essa venga scritta dai vincitori, non li assolverà; spero nemmeno il Dio che con tanto trasporto pregano al cospetto del Muro del Pianto, lo stesso Dio a cui si rivolgono, sempre lì a Gerusalemme, i musulmani nella Cupola della Roccia e i cristiani nel Santo Sepolcro. Eppure sarebbe bello, un giorno, sentir risuonare laggiù “Shalòm, Filastìn! Salàm, Israèl!”, in una commistione di lingue e culture, di rispetto e pace, poiché gli uomini di buona volontà non mancano, per fortuna, né da una parte né dall’altra delle due barricate. Sono numerosi, infatti, pure in Israele gli attivisti per i diritti umani e i privati cittadini che, non approvando ciò che viene messo in atto anche in loro nome dai vertici politici e militari, si recano a vigilare ai posti di blocco, documentano, fotografano, denunciano, si espongono in prima persona. Perché il senso di umanità e di giustizia non potrà mai scomparire del tutto. Umanità e giustizia, nient’altro: a queste resta ancorata l’ultima nostra speranza. * Sezione Musica & Video: la poesia citata di Mahmud Darwish cantata dalla cantante siriana Assala.

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Editore: Feltrinelli

Lingua: (DATO NON PRESENTE)

Numero di pagine: 390

Formato: (DATO NON PRESENTE)

ISBN-10: 8807881330

ISBN-13: 9788807881336

Data di pubblicazione: 2013

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La storia della Palestina, intrecciata alle vicende di una famiglia che diventa simbolo delle famiglie palestinesi, si snoda nell'arco di quasi sessant'anni, attraverso gli episodi che hanno segnato la nascita di uno stato e la fine di un altro. In primo piano c'è la tragedia dell'esilio, la guerra, la perdita della terra e degli affetti, la vita nei campi profughi, come rifugiati, condannati a sopravvivere in attesa di una svolta. L'autrice non cerca i colpevoli tra gli israeliani, che anzi descrive con pietà, rispetto e consapevolezza, racconta invece la storia di tante vittime capaci di andare avanti solo grazie all'amore.

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È strano: per secoli, nell’umiliazione della diaspora, gli ebrei hanno chinato la testa dinnanzi ai sopraffattori di turno, per poi rialzarla, e nel modo più brutale, con chi non c’entrava niente e così, a causa dell’antisemitismo che la nostra Europa ha covato in seno fino all’esplodere del bubbone nazista, gli arabi di Palestina hanno infine pagato il prezzo dell’Olocausto. È anche colpa nostra, quanto è accaduto laggiù, colpa del nostro “appeasement”, dell’ipocrisia cronica delle nostre diplomazie. C’è tutto questo in “Ogni mattina a Jenin” che, già pubblicato in Italia col titolo “Nel segno di David”, non è soltanto un romanzo: è la storia di una famiglia e di un popolo intero cacciato dalle sue case di solida pietra, dai suoi villaggi fioriti e dalla terra dove gli antenati, secoli addietro, avevano piantato ulivi e prospere radici di vita. È la storia di una catastrofe che non è mai terminata (“an-nakba”, la chiamano in arabo), di una diaspora nuova passando attraverso il fango dei vicoli del campo profughi di Jenin, la guerra dei sei giorni, l’intifada e il macello - nel senso proprio del termine - di Sabra e Shatila alla periferia della martoriata Beirut. La storia di crimini contro l’umanità che, purtroppo, resteranno impuniti! Nemmeno quello sporco assassino di Ariel Sharon, che pur ha finito i suoi giorni ridotto come un vegetale, ha pagato abbastanza per ciò che ha fatto. Una scrittura intensa, struggente; il dolore affiora tra le righe, pure la rabbia, quella che solo un popolo calpestato e derubato della terra può sentire. Mentre leggevo i capitoli più strazianti, mi tornavano in mente le parole di Primo Levi - un ebreo, non a caso! - in “Se questo è un uomo” (“Voi che vivete sicuri / Nelle vostre tiepide case […] / Considerate se questo è un uomo / Che lavora nel fango / Che non conosce pace […] / Vi comando queste parole / Scolpitele nel vostro cuore […] / Ripetetele ai vostri figli.”); e, ancor di più, quelle di Mahmud Darwish, il grande, grandissimo poeta della resistenza palestinese: “da voi la spada - e da noi il nostro sangue da voi l'acciaio e il fuoco - e da noi la nostra carne da voi un altro carro armato - e da noi una pietra da voi una bomba lacrimogena - e da noi la pioggia [...] Andatevene dalla nostra terra, dal nostro grano dal nostro mare [...] Andatevene...” (da “Passanti tra parole fugaci”) Se gli ebrei avessero almeno scelto di percorrere la strada della condivisione, sarebbe stato diverso; del resto, gli arabi non li avevano mica ributtati a mare allorché essi avevano iniziato ad approdare a piccole dosi tra fine Ottocento e inizio Novecento. Invece, vogliono tutto. E tutto, presto o tardi, si prenderanno, dal momento che la Cisgiordania (entrando dall’Allenby, basta trattenersi nei Territori anche solo un paio d’ore per capire che aria tira) è sotto stretto controllo militare israeliano, con i soldati che fanno il buono e il cattivo tempo ai check points, le onnipresenti torrette di controllo, la vergogna del muro che serpeggia velenoso nel cuore della gente, gli insediamenti dei coloni, covi di puro sionismo, violenza e intolleranza, dove gli abitanti, nella quiete dei loro rigogliosi giardini (mentre, spesso, i bambini palestinesi non hanno nemmeno l’acqua nello baracche in cui vivono), continuano a ripetere deliranti discorsi secondo cui non c’è nulla da restituire perché quella è tutta terra di Israele... La Storia, seppure essa venga scritta dai vincitori, non li assolverà; spero nemmeno il Dio che con tanto trasporto pregano al cospetto del Muro del Pianto, lo stesso Dio a cui si rivolgono, sempre lì a Gerusalemme, i musulmani nella Cupola della Roccia e i cristiani nel Santo Sepolcro. Eppure sarebbe bello, un giorno, sentir risuonare laggiù “Shalòm, Filastìn! Salàm, Israèl!”, in una commistione di lingue e culture, di rispetto e pace, poiché gli uomini di buona volontà non mancano, per fortuna, né da una parte né dall’altra delle due barricate. Sono numerosi, infatti, pure in Israele gli attivisti per i diritti umani e i privati cittadini che, non approvando ciò che viene messo in atto anche in loro nome dai vertici politici e militari, si recano a vigilare ai posti di blocco, documentano, fotografano, denunciano, si espongono in prima persona. Perché il senso di umanità e di giustizia non potrà mai scomparire del tutto. Umanità e giustizia, nient’altro: a queste resta ancorata l’ultima nostra speranza. * Sezione Musica & Video: la poesia citata di Mahmud Darwish cantata dalla cantante siriana Assala.

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