C’è un filone femminile nella lotta alla mafia, tradizionalmente ricondotta al coraggio e al protagonismo di figure maschili. Lo testimoniano alcune storie di donne che, muovendo dal proprio rapporto di sangue o affettivo con alcune vittime, hanno contribuito a rompere un’omertà secolare. È il caso di Francesca Serio, la madre del sindacalista contadino Salvatore Carnevale. Di Felicia Impastato madre di Peppino, l’ormai celebre protagonista de I cento passi. Di Saveria Antiochia, la madre del poliziotto Roberto, ucciso con il «suo» commissario Ninni Cassarà. È il caso di Michela Buscemi, con due fratelli vittime di Cosa Nostra, contigui agli ambienti dei clan, eppure coraggiosa parte civile al maxiprocesso di Palermo. Di Rita Atria, sorella di Nicola, giovane boss dello spaccio, diciassettenne collaboratrice di Borsellino e disperatamente suicida dopo la strage di via D’Amelio. Di Rita Borsellino, sorella dello stesso giudice, simbolo più alto di questa ribellione, già candidata ad amministrare la Sicilia, teatro della tragedia infinita.
Ma se ancora c’era qualche dubbio sull’«antimafia donna» e sulla forza rivoluzionaria dei sentimenti, la storia recente ci ha proposto una vicenda senza confronti, riassumibile in tre lettere: Lea. Ossia il nome di una giovane donna, Lea Garofalo, giunta a Milano da Petilia di Policastro. Nella sua storia si intrecciano infatti, in forma irripetibile, la ribellione individuale e solitaria che attraversa la storia della lotta alla mafia della donna del Novecento, e la ribellione femminile collettiva, sociale, maturata negli anni duemila. Ecco perché questo libro uscito per la prima volta quasi vent’anni fa si arricchisce oggi di nuove atmosfere e di un nuovo capitolo, dedicato alla storia di un processo e di una lotta collettiva che hanno trasformato una vittima destinata a essere dimenticata per sempre nell’eroina di una leggenda civile.