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Orhan Pamuk

Neve

Voto medio della comunità Lìberos
Recensioni (2)
Inserito il 09-11-2014 da pmax
Aggiornato il 09-11-2014 da pmax
Disponibile in 7 librerie
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Aggiornato il 09-11-2014 da pmax
Disponibile in 7 librerie

Nella città di Kars, al confine tra Turchia, Armenia e Georgia, alcune giovani ragazze si sono uccise, a quanto sembra perché costrette a togliersi il velo nelle aule dell'università. Il poeta Ka, esule turco in Germania, inviato a Kars per un reportage, inizia a indagare, tormentato dal confronto tra Occidente e Islam. Intanto la neve, indifferente alle passioni umane, continua a cadere.

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Recensioni

ElisaL

Se penso al velo, mi viene in mente il chiacchiericcio televisivo nostrano sulla legittimità del suo uso da parte delle donne islamiche in territorio europeo. Al di là del legittimo discorso sulla sicurezza pubblica, spuntano come funghi le considerazioni delle donne di turno, interpellate semplicemente in quanto appartenenti al genere femminile (e quindi, capaci di proferir verbo per l'intera categoria, secondo la logica del talk show), sul pericolo che il velo costituisce per la dignità della donna. Segue una sequela di banalità sulla necessità di essere donne, "essere femmine" (giuro, l'ho sentito) senza paura del maschio, e tutti quei discorsi che si fingono femministi perché anche il radical chic fa estremamente glamour (e quindi donna). Quello che si perde in questi dibattiti che cercano di approfondire un argomento importante riempiendolo di nulla è il senso delle parole, che vengono usate come se avessero un significato univoco, marmoreo, voluto dal divino. Cosa è la dignità? Perché quella delle donne deve essere diversa da quella dell'uomo? E' così scontato che l'uso del velo ammazzi l'identità della donna? Se è vero che in alcuni paesi, come l'Iran, le donne sono obbligate per legge a indossare il velo, è anche vero che ovunque si trovano delle islamiche che decidono consapevolmente di usarlo pur senza imposizioni. Agiscono inconsciamente sotto l'influsso della propria cultura (o dell'uomo di casa) o vedono davvero nel velo una fonte di dignità? E' difficile dare una risposta univoca, semplicemente perché non c'è. Che voi siate del partito dell'accavallamento della coscia come strumento di indipendenza femminile o che accettiate di porre un "ma" alla fine delle vostre convinzioni, questo libro vi stupirà. Perché "Neve" riesce a far vergognare di sé anche l'occidentale più aperto alle altre culture, quello che osserva ogni fatto straniero attraverso il filtro del relativismo culturale, credendosi imparziale. Pamuk è pronto a mandarci in corto circuito, ponendoci davanti agli occhi un caso che già di per sé costituisce un mistero per l'occidentale di oggi: è possibile che delle ragazze si uccidano perché viene loro vietato l'uso dello chador? Sembra impossibile, eppure accade questo a Kars, città di confine tra la Turchia e l'Armenia in cui si svolge la vicenda. Il nostro chaperon personale è Ka, poeta turco ed esule politico in Germania, che si reca a Kars per indagare sul caso delle giovani suicide. La Turchia è una democrazia, più o meno di facciata, dagli anni venti e il principio della laicità dello stato ha portato al bando di copricapi e abiti religiosi, anche se quelli femminili fino alla metà degli anni ottanta costituivano un'eccezione. Sembra quindi logico, all'europeo e al turco che abbraccia i principi kemalisti (di Kemal Ataturk, padre della democrazia), che questo costituisca un traguardo importante per le donne, libere di mostrare finalmente le proprie forme. Noi, in quanto occidentali, e Ka, in quanto turco borghese cresciuto nell'occidentalissima Istanbul, non possiamo che condividere questo pensiero. Ma queste ragazze sono un macigno che blocca il meccanismo del nostro ragionamento. Per quanto continuiamo a oliare le nostre convinzioni, le suicide rimangono lì, incastrate tra gli ingranaggi, con la loro morte inspiegabile. L'unica giustificazione possibile è l'arretratezza culturale in cui sguazzavano le ragazze, o la pressione della religione sulle loro teste. Perché è per noi così difficile concepire un caso simile senza pensare che necessariamente esso dipenda dall'arretratezza culturale del paese in questione? Semplicemente perché Occidente e Oriente sono come due fiere che si guardano in cagnesco da lontano. Si sbirciano con gli occhi talmente socchiusi in una smorfia di disprezzo che nessuna delle due riesce a focalizzare le caratteristiche dell'altra, eccetto una, che passa a connotare l'intero soggetto in maniera assoluta. E così l'Occidente diventa per gli integralisti islamici un luogo in cui tutte le donne vogliono fare le attrici dalle natiche al vento, e l'Oriente islamico un convoglio di barbuti che opprimono le donne senza nemmeno porsi il problema se questo sia giusto. Sono così, è la loro cultura. Poco importa che tra un estremo e l'altro ci sia il mondo. Non sono passata dall'uso del velo al rapporto tra Oriente e Occidente per dar aria alla bocca. Pamuk usa la questione del velo come punto di partenza per una corsa a due squadre, Occidentali contro Orientali, che al momento della pistolettata in aria sono divisi in due gruppi ben distinti dal colore della maglia, ma al traguardo la maglia non ce l'hanno più e molti di loro non se ne accorgono neppure. Non certo perché siano cessate le ostilità: al contrario, i partecipanti sono perennemente armati l'uno contro l'altro. Quello che cancella lentamente i confini tra le fazioni è la ricerca della felicità, motore che spinge tutti i personaggi alla propria condotta. Pamuk è molto bravo a far emergere questo aspetto, perché il problema tra orientali e occidentali viene argomentato attraverso le parole dei personaggi, che intrecciano ideali e vita quotidiana, trascinandoci nostro malgrado nella loro esistenza, fatta di crisi spirituali, rimorsi, speranze. La verità non è dettata da un autoritario fuoricampo, ma da questo insieme di voci dai timbri variopinti. Vi sorprenderete ad amare alla follia personaggi che per le loro convinzioni sareste forse portati a disprezzare, come il giovane integralista Necip, e ad odiarne altri che rappresentano la vostra stessa cultura. Ma Neve non è solo questo. Se Pamuk vi indica l'uomo che c'è dietro l'integralista islamico, sia esso uomo o donna, in un secondo momento vi porta a rivolgere contro di voi il vostro stesso indice. L'orientale non è solo quello che rifiuta l'identità occidentale per salvaguardare la propria, è anche quello che insegue l'Europa come i positivisti inseguivano la scienza. L'Occidente è la strada per lo sviluppo, per la felicità. Ka è un personaggio emblematico da questo punto di vista: esiliato per motivi politici nei quali non crede nemmeno più, ateo per conformismo, si vergogna della miseria del suo popolo e soffoca con paura il suo desiderio di credere in un dio. Pur essendo un turco, va in giro con quel suo cappotto tedesco comprato ai magazzini Kaufhof di Francoforte come se fosse la sua seconda pelle, perché lo protegge "dalle cattiverie". La verità è che gli dà la sensazione di essere parte di un paese che non è il suo e che lo rifiuta. Quando vive a Francoforte, Ka vive nella miseria più profonda e nella solitudine più nera, perché anche all'estero gli unici che si interessano di un turco sono i suoi connazionali. Pamuk porta in primo piano la tragedia del turco che compie un passo verso l'Europa rinnegando se stesso e trova il vuoto sotto i suoi piedi, ma non sa più tornare indietro perché teme che significhi rimettersi sulla strada dell'arretratezza. In conclusione, Neve è un romanzo che ha molto da dire. Non ha la faccia saccente di chi ti ammonisce per importi la sua verità, sembra piuttosto che l'autore stesso abbia voluto recitare un mea culpa con il lettore occidentale, data la sua appartenenza alla classe borghese di Istanbul. Fra queste pagine c'è la bellezza delle riflessioni sulla vita, sulla morte, del desiderio di felicità comune a uomini diametralmente opposti per le loro convinzioni, e della continua nevicata che non smette di ricordare agli uomini la loro unicità rispetto a tutti gli altri e la fragilità della loro esistenza. La neve è il simbolo della bellezza del creato, della incerta presenza di un dio che ci ignora, della vita che ci lega gli uni agli altri nostro malgrado e ci costringe a rimanere stretti stretti sullo stesso pianeta, come in una piccola città di confine chiusa in una palla di vetro. Una cosa è certa. Alla fine del romanzo, le vostre convinzioni avranno ricevuto una bella limata. - Se mi mette in un romanzo ambientato a Kars, vorrei dire ai lettori di non credere assolutamente a ciò che dice di me, di noi. Nessuno può capirci da lontano. - Tanto nessuno crederebbe a un romanzo del genere. - No, ci crederebbero, - disse di getto. - Per considerare se stessi intelligenti, superiori e umani, vorranno credere che noi siamo ridicoli e simpatici, e che loro ci possono capire così come siamo, arrivando addirittura a provare affetto nei nostri confronti. Ma se mette questa mia frase, nelle loro menti si insinuerebbe un dubbio.

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pmax

Libro non facile, lento, non molto scorrevole e all'inizio si è quasi travolti, bisogna darsi il tempo di "depositarsi" nella trama. Nel complesso buona lettura. "Forse siamo arrivati al cuore della nostra storia. Quanto è possibile capire il dolore, l’amore di un altro? Fino a che punto possiamo capire coloro che vivono tra dolori, frustrazioni e angosce più profonde delle nostre? Se capire significa mettersi al posto di colui che è diverso da noi, i ricchi e i dominatori del mondo hanno mai potuto capire milioni di miseri emarginati? Fino a che punto il romanziere Orhan può "

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Editore: Einaudi

Lingua: (DATO NON PRESENTE)

Numero di pagine: 468

Formato: (DATO NON PRESENTE)

ISBN-10: 8806186183

ISBN-13: 9788806186180

Data di pubblicazione: 2007

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Nella città di Kars, al confine tra Turchia, Armenia e Georgia, alcune giovani ragazze si sono uccise, a quanto sembra perché costrette a togliersi il velo nelle aule dell'università. Il poeta Ka, esule turco in Germania, inviato a Kars per un reportage, inizia a indagare, tormentato dal confronto tra Occidente e Islam. Intanto la neve, indifferente alle passioni umane, continua a cadere.

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ElisaL

Se penso al velo, mi viene in mente il chiacchiericcio televisivo nostrano sulla legittimità del suo uso da parte delle donne islamiche in territorio europeo. Al di là del legittimo discorso sulla sicurezza pubblica, spuntano come funghi le considerazioni delle donne di turno, interpellate semplicemente in quanto appartenenti al genere femminile (e quindi, capaci di proferir verbo per l'intera categoria, secondo la logica del talk show), sul pericolo che il velo costituisce per la dignità della donna. Segue una sequela di banalità sulla necessità di essere donne, "essere femmine" (giuro, l'ho sentito) senza paura del maschio, e tutti quei discorsi che si fingono femministi perché anche il radical chic fa estremamente glamour (e quindi donna). Quello che si perde in questi dibattiti che cercano di approfondire un argomento importante riempiendolo di nulla è il senso delle parole, che vengono usate come se avessero un significato univoco, marmoreo, voluto dal divino. Cosa è la dignità? Perché quella delle donne deve essere diversa da quella dell'uomo? E' così scontato che l'uso del velo ammazzi l'identità della donna? Se è vero che in alcuni paesi, come l'Iran, le donne sono obbligate per legge a indossare il velo, è anche vero che ovunque si trovano delle islamiche che decidono consapevolmente di usarlo pur senza imposizioni. Agiscono inconsciamente sotto l'influsso della propria cultura (o dell'uomo di casa) o vedono davvero nel velo una fonte di dignità? E' difficile dare una risposta univoca, semplicemente perché non c'è. Che voi siate del partito dell'accavallamento della coscia come strumento di indipendenza femminile o che accettiate di porre un "ma" alla fine delle vostre convinzioni, questo libro vi stupirà. Perché "Neve" riesce a far vergognare di sé anche l'occidentale più aperto alle altre culture, quello che osserva ogni fatto straniero attraverso il filtro del relativismo culturale, credendosi imparziale. Pamuk è pronto a mandarci in corto circuito, ponendoci davanti agli occhi un caso che già di per sé costituisce un mistero per l'occidentale di oggi: è possibile che delle ragazze si uccidano perché viene loro vietato l'uso dello chador? Sembra impossibile, eppure accade questo a Kars, città di confine tra la Turchia e l'Armenia in cui si svolge la vicenda. Il nostro chaperon personale è Ka, poeta turco ed esule politico in Germania, che si reca a Kars per indagare sul caso delle giovani suicide. La Turchia è una democrazia, più o meno di facciata, dagli anni venti e il principio della laicità dello stato ha portato al bando di copricapi e abiti religiosi, anche se quelli femminili fino alla metà degli anni ottanta costituivano un'eccezione. Sembra quindi logico, all'europeo e al turco che abbraccia i principi kemalisti (di Kemal Ataturk, padre della democrazia), che questo costituisca un traguardo importante per le donne, libere di mostrare finalmente le proprie forme. Noi, in quanto occidentali, e Ka, in quanto turco borghese cresciuto nell'occidentalissima Istanbul, non possiamo che condividere questo pensiero. Ma queste ragazze sono un macigno che blocca il meccanismo del nostro ragionamento. Per quanto continuiamo a oliare le nostre convinzioni, le suicide rimangono lì, incastrate tra gli ingranaggi, con la loro morte inspiegabile. L'unica giustificazione possibile è l'arretratezza culturale in cui sguazzavano le ragazze, o la pressione della religione sulle loro teste. Perché è per noi così difficile concepire un caso simile senza pensare che necessariamente esso dipenda dall'arretratezza culturale del paese in questione? Semplicemente perché Occidente e Oriente sono come due fiere che si guardano in cagnesco da lontano. Si sbirciano con gli occhi talmente socchiusi in una smorfia di disprezzo che nessuna delle due riesce a focalizzare le caratteristiche dell'altra, eccetto una, che passa a connotare l'intero soggetto in maniera assoluta. E così l'Occidente diventa per gli integralisti islamici un luogo in cui tutte le donne vogliono fare le attrici dalle natiche al vento, e l'Oriente islamico un convoglio di barbuti che opprimono le donne senza nemmeno porsi il problema se questo sia giusto. Sono così, è la loro cultura. Poco importa che tra un estremo e l'altro ci sia il mondo. Non sono passata dall'uso del velo al rapporto tra Oriente e Occidente per dar aria alla bocca. Pamuk usa la questione del velo come punto di partenza per una corsa a due squadre, Occidentali contro Orientali, che al momento della pistolettata in aria sono divisi in due gruppi ben distinti dal colore della maglia, ma al traguardo la maglia non ce l'hanno più e molti di loro non se ne accorgono neppure. Non certo perché siano cessate le ostilità: al contrario, i partecipanti sono perennemente armati l'uno contro l'altro. Quello che cancella lentamente i confini tra le fazioni è la ricerca della felicità, motore che spinge tutti i personaggi alla propria condotta. Pamuk è molto bravo a far emergere questo aspetto, perché il problema tra orientali e occidentali viene argomentato attraverso le parole dei personaggi, che intrecciano ideali e vita quotidiana, trascinandoci nostro malgrado nella loro esistenza, fatta di crisi spirituali, rimorsi, speranze. La verità non è dettata da un autoritario fuoricampo, ma da questo insieme di voci dai timbri variopinti. Vi sorprenderete ad amare alla follia personaggi che per le loro convinzioni sareste forse portati a disprezzare, come il giovane integralista Necip, e ad odiarne altri che rappresentano la vostra stessa cultura. Ma Neve non è solo questo. Se Pamuk vi indica l'uomo che c'è dietro l'integralista islamico, sia esso uomo o donna, in un secondo momento vi porta a rivolgere contro di voi il vostro stesso indice. L'orientale non è solo quello che rifiuta l'identità occidentale per salvaguardare la propria, è anche quello che insegue l'Europa come i positivisti inseguivano la scienza. L'Occidente è la strada per lo sviluppo, per la felicità. Ka è un personaggio emblematico da questo punto di vista: esiliato per motivi politici nei quali non crede nemmeno più, ateo per conformismo, si vergogna della miseria del suo popolo e soffoca con paura il suo desiderio di credere in un dio. Pur essendo un turco, va in giro con quel suo cappotto tedesco comprato ai magazzini Kaufhof di Francoforte come se fosse la sua seconda pelle, perché lo protegge "dalle cattiverie". La verità è che gli dà la sensazione di essere parte di un paese che non è il suo e che lo rifiuta. Quando vive a Francoforte, Ka vive nella miseria più profonda e nella solitudine più nera, perché anche all'estero gli unici che si interessano di un turco sono i suoi connazionali. Pamuk porta in primo piano la tragedia del turco che compie un passo verso l'Europa rinnegando se stesso e trova il vuoto sotto i suoi piedi, ma non sa più tornare indietro perché teme che significhi rimettersi sulla strada dell'arretratezza. In conclusione, Neve è un romanzo che ha molto da dire. Non ha la faccia saccente di chi ti ammonisce per importi la sua verità, sembra piuttosto che l'autore stesso abbia voluto recitare un mea culpa con il lettore occidentale, data la sua appartenenza alla classe borghese di Istanbul. Fra queste pagine c'è la bellezza delle riflessioni sulla vita, sulla morte, del desiderio di felicità comune a uomini diametralmente opposti per le loro convinzioni, e della continua nevicata che non smette di ricordare agli uomini la loro unicità rispetto a tutti gli altri e la fragilità della loro esistenza. La neve è il simbolo della bellezza del creato, della incerta presenza di un dio che ci ignora, della vita che ci lega gli uni agli altri nostro malgrado e ci costringe a rimanere stretti stretti sullo stesso pianeta, come in una piccola città di confine chiusa in una palla di vetro. Una cosa è certa. Alla fine del romanzo, le vostre convinzioni avranno ricevuto una bella limata. - Se mi mette in un romanzo ambientato a Kars, vorrei dire ai lettori di non credere assolutamente a ciò che dice di me, di noi. Nessuno può capirci da lontano. - Tanto nessuno crederebbe a un romanzo del genere. - No, ci crederebbero, - disse di getto. - Per considerare se stessi intelligenti, superiori e umani, vorranno credere che noi siamo ridicoli e simpatici, e che loro ci possono capire così come siamo, arrivando addirittura a provare affetto nei nostri confronti. Ma se mette questa mia frase, nelle loro menti si insinuerebbe un dubbio.

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Libro non facile, lento, non molto scorrevole e all'inizio si è quasi travolti, bisogna darsi il tempo di "depositarsi" nella trama. Nel complesso buona lettura. "Forse siamo arrivati al cuore della nostra storia. Quanto è possibile capire il dolore, l’amore di un altro? Fino a che punto possiamo capire coloro che vivono tra dolori, frustrazioni e angosce più profonde delle nostre? Se capire significa mettersi al posto di colui che è diverso da noi, i ricchi e i dominatori del mondo hanno mai potuto capire milioni di miseri emarginati? Fino a che punto il romanziere Orhan può "

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