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Il Dottor Živago
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Durante la lettura è impossibile separare il romanzo dal contesto storico più conosciuto. I personaggi sono dei rappresentanti di oggetti più [...]

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I nomi epiceni
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"Non gli passa. È difficile che la collera passi. Esiste il verbo incollerirsi, far montare dentro di sé la collera, ma non il suo contrario. P [...]

Michela L.


Huckelberry Finn
Oltre un mese fa, 05-04-2024
La zona d'interesse
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"pensavo, come ha potuto «un sonnolento paese di poeti e sognatori», e la più colta e raffinata nazione che il mondo avesse mai visto, come ha [...]

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Saul Bellow

Herzog

Voto medio della comunità Lìberos
Recensioni (2)
Inserito il 30-01-2014 da Alberto Rossi
Aggiornato il 30-01-2014 da Alberto Rossi
Disponibile in 8 librerie
Inserito il 30-01-2014 da Alberto Rossi
Aggiornato il 30-01-2014 da Alberto Rossi
Disponibile in 8 librerie

Solo, in una casa di campagna, un intellettuale si interroga - e interroga gli amici - sul senso dell'esistenza, in un susseguirsi di spiegazioni, interpretazioni, chiarimenti. Il romanzo di maggior successo di Bellow, premio Nobel per la letteratura 1976.

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Recensioni

ElisaL

Ah, la magniloquenza dell'autogiustificazione, pensò Herzog. Che genio sapeva suscitare nei mortali, perfino in quelli con il naso più rosso. Ah, poveretto!- e Herzog per un momento si unì al mondo obiettivo, e da quell'altezza guardò giù, a se stesso. Anche lui poteva sorridere di Herzog e disprezzarlo. Ma rimaneva sempre il fatto. Io sono Herzog. Io sono obbligato a essere quest'uomo. Nessun'altro può esserlo al posto mio. Mentre parlavo con una cara amica dell'ultimo film di Woody Allen, all'uscita dal cinema, ho avuto la brillante idea di spostare il discorso su uno dei personaggi (la ragazza tutta pose intellettualoidi). Mi ricorda tantissimo C., dico ridendo sotto i baffi, una nostra vecchia conoscenza. Lei, accogliendo la risata con un sorriso un po' più prudente, mi ha detto che in realtà quel personaggio le ha messo addosso la paura di risultare così agli occhi della gente, nel parlare di arte e letteratura al suo solito modo entusiasta. E' stata una stilettata. La risata mi è morta sulla bocca, e la domanda è arrivata in un secondo: è C. o sono io? Cosa mi impedisce di essere la ragazza tutta pose intellettualoidi durante un discorso? Non cerco forse anche io di calcare il personaggio, di dare lustro al mio ego, oltre a esprimere un interesse? Il mio discorso frivolo puzzava. Ecco, c'è chi queste domande autoindagatorie le evita del tutto, non andando a fondo nel cercare la sorgente della puzza. C'è, poi, chi ricorre alla servizievole, sempiterna filosofia del "eh-ma-io". Rido di un comportamento altrui e, nel momento in cui mi accorgo di aver fatto la stessa cosa qualche tempo prima, reprimo il tutto con un celere cerotto "eh-ma-io", che sembra gonfio di giustificazioni sensate, ma in realtà è solo fumo negli occhi (i miei, gli altri ci credono solo se spinti da un affetto fiducioso). Eh-ma-io l'ho fatto per una ragione. Eh-ma-io l'ho fatto diversamente. Eh-ma-io sono io. A contorno di questa serata, arriva Herzog con la sua burbera necessità di scrivere lettere a chi gli pare, per lamentarsi, muovere critiche, specificare, spiegare, fare scacco. Scrive, scrive, e non spedisce mai. Quante volte l'abbiamo fatto? Io sono sempre stata un Herzog. In preda alla rabbia o all'umiliazione, ci organizziamo il discorso del secolo, quello capace di far ammutolire il mondo per un istante, la zia arcigna, la cugina con l'acidità nel sangue (più o meno del nostro?), parenti serpenti ed ex amici che ancora si gloriano di avere avuto la meglio su di noi. Ci dedichiamo cumulativamente ore e ore - giorni, anni - a questi sogni a occhi aperti, a queste opere d'arte. Potiamo e innestiamo in modo da ottenere il meglio e vincere che? Solo un sospiro di sollievo dal mondo, che si disperde in fretta e non lascia odore. Io non ho potuto fare a meno di affezionarmi a Herzog. Con un piede sul suo io imbizzarrito (ora attraverso la prima persona, ora sbirciando le sue lettere), e con l'altro sulla terra solida accanto a lui, Bellow lo osserva da dentro e da fuori, serpeggiando. I personaggi che si avvicendano tra le pagine intorno a Herzog ci sembrano quasi tutti meschini, falsi, capaci di condotte miserande e di mantenere al contempo una brillantissima faccia tosta. Come quelli che popolano il nostro mondo, d'altronde: gli stronzi ci danzano attorno, e noi li guardiamo dal nostro baluardo di innocenza. Herzog, dal canto suo, è una corda tesa di emozioni, pronte a vibrare al minimo tocco. La rabbia improvvisa limata dall'autoanalisi, la profonda sofferenza, la cecità di fronte all'inganno, la spietata fede nell'amico più caro, l'amore cagnesco che non scompare dopo una raffica di pugni: è un pagliaccio sofferente. Cede alla tentazione dell'eh-ma-io, ma pian piano aggiusta la rotta e se le dà di santa ragione, da solo. Scopre. Sarebbe anche il nostro turno, magari. Una nota a margine: c'è una cosa che adoro nei buoni libri, ed è la capacità di descrivere una sensazione passata sulla pelle di tutti in un modo semplice ma efficace. Ecco, in questi libri le descrizioni diventano leggere come poesie. Herzog è pieno di poesie annidate tra le righe. Ciò che le rende diverse dai libri cattivi (quelli cattivi per me) è che nessuno ti avvisa. Il timbro del narratore non si gonfia di solennità come se avesse tossito per schiarirsi la voce (ascolta bene, sto per illuminarti), ma lascia scorrere le parole come se parlasse d'altro. Tu afferrale.

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Noce Moscata

Metti che poi perdi le staffe.
 
Ebbene signori miei, cosa sarebbe successo se Moses Herzog avesse avuto un blog?
 
Avrebbe sicuramente fatto parte della vecchia scuola, forse antesignano della piattaforma di Splinder. Lì avrebbe esercitato le sue migliori doti di grafomane, scrivendo post tutti i giorni e non di rado più volte al dì; avrebbe intavolato discussioni, inveito contro destinatari universali, sfogando le sue frustrazioni e  intervallando fiumi di parole irate a poetici sguardi disillusi sul passato. A volte avrebbe risposto ai commenti con veemenza e partecipazione, a volte avrebbe spiato in silenzio, tutto compreso nel suo vittimismo, o a seconda, nel suo orgoglio più fiero. Per via del suo vasto background culturale, avrebbe seminato proseliti senza difficoltà e l’opinione pubblica si sarebbe scissa in colpevolisti e innocentisti.
 
Poi, con l’avvento dei social network sarebbe passato di moda. Con fare dinoccolato avrebbe accettato che internet rispecchiasse la società qualunquista di oggi, ma con contegno si sarebbe fatto da parte. Non sarebbe stato uno di quelli che cancellano l’account. Avrebbe lasciato i suoi scritti lì, come testimoni romantici delle sue cadute e risalite.
 
Nondimeno il suo nome sarebbe rimasto legato a un certo tipo di antieroismo. Aspè che vi spiego.
 
Quando da piccola mio padre mi spronava dicendomi che la vita bisogna cavalcarla, altrimenti lei cavalca te, io coscienziosamente annuivo, ma intimamente giudicavo quest’approccio decisamente superficiale. La logica mi insegnava che prima di cavalcare, bisogna salirci a cavallo, e chi l’ha detto che io ne fossi capace? E se avessi messo il piede in fallo e mancato la staffa? E se una volta sulle staffe  le vertigini mi avessero inchiodato in una goffissima posa scomposta? E se dopo svariati tentativi avessi rinunciato a salire, chi lo dice che io non avessi  comunque voluto fortissimamente riuscirci? 
 
Questo è l’esatto istante in cui Herzog fa capolino, quell’attimo in bilico tra la metaforica comprensione del nodo gordiano della tua vita appeso alla sella di una cavalcata utopica, e la rinuncia frustrante a un futuro che da terra manco riesci a vedere, figuriamoci  prenderlo di petto. Herzog  è sempre  lì quando fai ritorno a casa e una volta chiusa la porta, fai il più bel discorso della tua vita, quello lucido e tagliente che ti capita di vedere solo nei film, in bocca a pochi attori eccellenti, o ad  oratori con esperienza pluridecennale. E mentre tu dai fondo alle tue migliori capacità teatrali davanti alla finestra che dà sul cavedio di casa, Herzog lo fa sul foglio. E scrive, scrive tutto quello che diresti anche tu, rimanendo fedele a se stesso mentre cerca di combattersi e annullare la parte marcia di sé.
 
Ma c’è un momento in cui si stacca dal modello in serie di “uomo come tanti” e diventa l’eroe degli antieroi.  Quando raggiunge il fondo di se stesso e non si scotta. E risale, solo una volta scoperto, che in fondo sta bene e si ama esattamente per com’è. Con le sue contraddizioni imbarazzanti e la sua pedante introspezione, che condividiamo perché è quella a cui vorremmo arrivare tutti se avessimo il coraggio di inoltrarci nelle pieghe più scomode del nostro io. Ed Herzog infatti, È scomodo oltre ogni ragionevole dubbio. È quell’amico che quando chiama, dobbiamo resistere alla tentazione di farci negare, ma alla fine cediamo e prestiamo orecchio ai suoi soliloqui, perché per quanto impegnativo è l’amico più vero che abbiamo.  E succede sempre, che a fine serata ci congediamo da lui con la muta speranza che almeno un po’, ci sia rimasta appiccicata addosso, una piccola parte della sua onestà.

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Editore: Mondadori

Lingua: (DATO NON PRESENTE)

Numero di pagine: 514

Formato: (DATO NON PRESENTE)

ISBN-10: 8804341149

ISBN-13: 9788804341147

Data di pubblicazione: 1990

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Solo, in una casa di campagna, un intellettuale si interroga - e interroga gli amici - sul senso dell'esistenza, in un susseguirsi di spiegazioni, interpretazioni, chiarimenti. Il romanzo di maggior successo di Bellow, premio Nobel per la letteratura 1976.

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Ah, la magniloquenza dell'autogiustificazione, pensò Herzog. Che genio sapeva suscitare nei mortali, perfino in quelli con il naso più rosso. Ah, poveretto!- e Herzog per un momento si unì al mondo obiettivo, e da quell'altezza guardò giù, a se stesso. Anche lui poteva sorridere di Herzog e disprezzarlo. Ma rimaneva sempre il fatto. Io sono Herzog. Io sono obbligato a essere quest'uomo. Nessun'altro può esserlo al posto mio. Mentre parlavo con una cara amica dell'ultimo film di Woody Allen, all'uscita dal cinema, ho avuto la brillante idea di spostare il discorso su uno dei personaggi (la ragazza tutta pose intellettualoidi). Mi ricorda tantissimo C., dico ridendo sotto i baffi, una nostra vecchia conoscenza. Lei, accogliendo la risata con un sorriso un po' più prudente, mi ha detto che in realtà quel personaggio le ha messo addosso la paura di risultare così agli occhi della gente, nel parlare di arte e letteratura al suo solito modo entusiasta. E' stata una stilettata. La risata mi è morta sulla bocca, e la domanda è arrivata in un secondo: è C. o sono io? Cosa mi impedisce di essere la ragazza tutta pose intellettualoidi durante un discorso? Non cerco forse anche io di calcare il personaggio, di dare lustro al mio ego, oltre a esprimere un interesse? Il mio discorso frivolo puzzava. Ecco, c'è chi queste domande autoindagatorie le evita del tutto, non andando a fondo nel cercare la sorgente della puzza. C'è, poi, chi ricorre alla servizievole, sempiterna filosofia del "eh-ma-io". Rido di un comportamento altrui e, nel momento in cui mi accorgo di aver fatto la stessa cosa qualche tempo prima, reprimo il tutto con un celere cerotto "eh-ma-io", che sembra gonfio di giustificazioni sensate, ma in realtà è solo fumo negli occhi (i miei, gli altri ci credono solo se spinti da un affetto fiducioso). Eh-ma-io l'ho fatto per una ragione. Eh-ma-io l'ho fatto diversamente. Eh-ma-io sono io. A contorno di questa serata, arriva Herzog con la sua burbera necessità di scrivere lettere a chi gli pare, per lamentarsi, muovere critiche, specificare, spiegare, fare scacco. Scrive, scrive, e non spedisce mai. Quante volte l'abbiamo fatto? Io sono sempre stata un Herzog. In preda alla rabbia o all'umiliazione, ci organizziamo il discorso del secolo, quello capace di far ammutolire il mondo per un istante, la zia arcigna, la cugina con l'acidità nel sangue (più o meno del nostro?), parenti serpenti ed ex amici che ancora si gloriano di avere avuto la meglio su di noi. Ci dedichiamo cumulativamente ore e ore - giorni, anni - a questi sogni a occhi aperti, a queste opere d'arte. Potiamo e innestiamo in modo da ottenere il meglio e vincere che? Solo un sospiro di sollievo dal mondo, che si disperde in fretta e non lascia odore. Io non ho potuto fare a meno di affezionarmi a Herzog. Con un piede sul suo io imbizzarrito (ora attraverso la prima persona, ora sbirciando le sue lettere), e con l'altro sulla terra solida accanto a lui, Bellow lo osserva da dentro e da fuori, serpeggiando. I personaggi che si avvicendano tra le pagine intorno a Herzog ci sembrano quasi tutti meschini, falsi, capaci di condotte miserande e di mantenere al contempo una brillantissima faccia tosta. Come quelli che popolano il nostro mondo, d'altronde: gli stronzi ci danzano attorno, e noi li guardiamo dal nostro baluardo di innocenza. Herzog, dal canto suo, è una corda tesa di emozioni, pronte a vibrare al minimo tocco. La rabbia improvvisa limata dall'autoanalisi, la profonda sofferenza, la cecità di fronte all'inganno, la spietata fede nell'amico più caro, l'amore cagnesco che non scompare dopo una raffica di pugni: è un pagliaccio sofferente. Cede alla tentazione dell'eh-ma-io, ma pian piano aggiusta la rotta e se le dà di santa ragione, da solo. Scopre. Sarebbe anche il nostro turno, magari. Una nota a margine: c'è una cosa che adoro nei buoni libri, ed è la capacità di descrivere una sensazione passata sulla pelle di tutti in un modo semplice ma efficace. Ecco, in questi libri le descrizioni diventano leggere come poesie. Herzog è pieno di poesie annidate tra le righe. Ciò che le rende diverse dai libri cattivi (quelli cattivi per me) è che nessuno ti avvisa. Il timbro del narratore non si gonfia di solennità come se avesse tossito per schiarirsi la voce (ascolta bene, sto per illuminarti), ma lascia scorrere le parole come se parlasse d'altro. Tu afferrale.

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Ebbene signori miei, cosa sarebbe successo se Moses Herzog avesse avuto un blog?
 
Avrebbe sicuramente fatto parte della vecchia scuola, forse antesignano della piattaforma di Splinder. Lì avrebbe esercitato le sue migliori doti di grafomane, scrivendo post tutti i giorni e non di rado più volte al dì; avrebbe intavolato discussioni, inveito contro destinatari universali, sfogando le sue frustrazioni e  intervallando fiumi di parole irate a poetici sguardi disillusi sul passato. A volte avrebbe risposto ai commenti con veemenza e partecipazione, a volte avrebbe spiato in silenzio, tutto compreso nel suo vittimismo, o a seconda, nel suo orgoglio più fiero. Per via del suo vasto background culturale, avrebbe seminato proseliti senza difficoltà e l’opinione pubblica si sarebbe scissa in colpevolisti e innocentisti.
 
Poi, con l’avvento dei social network sarebbe passato di moda. Con fare dinoccolato avrebbe accettato che internet rispecchiasse la società qualunquista di oggi, ma con contegno si sarebbe fatto da parte. Non sarebbe stato uno di quelli che cancellano l’account. Avrebbe lasciato i suoi scritti lì, come testimoni romantici delle sue cadute e risalite.
 
Nondimeno il suo nome sarebbe rimasto legato a un certo tipo di antieroismo. Aspè che vi spiego.
 
Quando da piccola mio padre mi spronava dicendomi che la vita bisogna cavalcarla, altrimenti lei cavalca te, io coscienziosamente annuivo, ma intimamente giudicavo quest’approccio decisamente superficiale. La logica mi insegnava che prima di cavalcare, bisogna salirci a cavallo, e chi l’ha detto che io ne fossi capace? E se avessi messo il piede in fallo e mancato la staffa? E se una volta sulle staffe  le vertigini mi avessero inchiodato in una goffissima posa scomposta? E se dopo svariati tentativi avessi rinunciato a salire, chi lo dice che io non avessi  comunque voluto fortissimamente riuscirci? 
 
Questo è l’esatto istante in cui Herzog fa capolino, quell’attimo in bilico tra la metaforica comprensione del nodo gordiano della tua vita appeso alla sella di una cavalcata utopica, e la rinuncia frustrante a un futuro che da terra manco riesci a vedere, figuriamoci  prenderlo di petto. Herzog  è sempre  lì quando fai ritorno a casa e una volta chiusa la porta, fai il più bel discorso della tua vita, quello lucido e tagliente che ti capita di vedere solo nei film, in bocca a pochi attori eccellenti, o ad  oratori con esperienza pluridecennale. E mentre tu dai fondo alle tue migliori capacità teatrali davanti alla finestra che dà sul cavedio di casa, Herzog lo fa sul foglio. E scrive, scrive tutto quello che diresti anche tu, rimanendo fedele a se stesso mentre cerca di combattersi e annullare la parte marcia di sé.
 
Ma c’è un momento in cui si stacca dal modello in serie di “uomo come tanti” e diventa l’eroe degli antieroi.  Quando raggiunge il fondo di se stesso e non si scotta. E risale, solo una volta scoperto, che in fondo sta bene e si ama esattamente per com’è. Con le sue contraddizioni imbarazzanti e la sua pedante introspezione, che condividiamo perché è quella a cui vorremmo arrivare tutti se avessimo il coraggio di inoltrarci nelle pieghe più scomode del nostro io. Ed Herzog infatti, È scomodo oltre ogni ragionevole dubbio. È quell’amico che quando chiama, dobbiamo resistere alla tentazione di farci negare, ma alla fine cediamo e prestiamo orecchio ai suoi soliloqui, perché per quanto impegnativo è l’amico più vero che abbiamo.  E succede sempre, che a fine serata ci congediamo da lui con la muta speranza che almeno un po’, ci sia rimasta appiccicata addosso, una piccola parte della sua onestà.

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